Pagina:Georgiche.djvu/120

120

Veleno, a cui d’Ippomane i pastori
Diedero il nome, e che le rie matrigne
450Spesse volte raccolgono, mescendo
Venefich’erbe e magiche parole.
Ma fugge intanto e rapido s’invola
Il tempo irrevocabile, mentr’io
Già troppo a lungo da l’amor rapito
455M’arresto errando ad ogni oggetto intorno.

     Basta fin qui del grosso armento. Or resta
Del lanigero gregge, e de le irsute
Capre a parlar: di faticosa cura
E’ il culto lor, ma larga poi ne speri
460L’industre agricoltor lode e vantaggio.
Ben veggio, e so, che malagevol opra
Fia l’innalzar con dignitoso stile
Sì basse cose, e l’umile argomento
Coi fregi ornar de l’apollineo canto;
465Ma un dolce amor di peregrina lode
Me per deserte e sconosciute spiagge
Di Pindo invita: ignote vie mi giova
Tentar su l’ardue cime, ove non orma
Appar d’antico piè che apra, od insegni
470Facil sentiero a le castalie rive.
Or tu propizia, o veneranda Pale,
Scendi, e rinforza la mia voce al canto.