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il bene sicuro dell’umana famiglia, e si diminuiscono quei diletti dai quali è infiorata la vita.
Le sette che pugnano sui campi dell’Arte non sono meno iraconde né intolleranti meno, di quello fossero iraconde e intolleranti le sette che hanno diviso le religioni e le nazioni. Dalle quali, per certo, non venne alcun onore agli uomini, né alcun giovamento.
Più giovine di tutte, e per questo più forte, incede prima una schiera che ha scritto sul gonfalone: «Non v’è altra Arte che l’Arte cristiana; fuori dell’Arte cristiana non v’ha salute né gloria; il quattrocento è il limite dei trionfi dell’Arte». Questa setta nacque fuor della cerchia dell’Alpe; Lamagna la creò; Francia l’ha cresciuta. Superate le giogaje dell’inutile schermo (siccome ogni moda straniera) trovò proseliti fra noi, e tra questi anche uomini di nobile e specchiato ingegno. Severa austerissima, collo stesso martello distrugge il tempio ed il foro d’Atene, la chiesa del Palladio, il palazzo del Sammicheli; e manda le statue di Fidia e del Canova alla fornace acciò si convertano in calce. E perché? Perché sono opere che sanno di profanità. E fatto catafascio delle pitture di Tiziano, del Tintoretto, del Domenichino, di Guido Reni, dei Caracci e di quasi tutti i maestri che fiorirono dopo l’anno di grazia mille e cinquecento, ne forma un falò, e vi dà fuoco intuonando il canto di una divota laude. La quale interrompono con poco divote maledizioni scagliate contro Raffaello, perché abbandonò le montagne dell’Umbria e impaniatosi nelle profanità di Roma, dipinse le sale del Vaticano e la Trasfigurazione; perché Tiziano fu amico dell’Aretino e dipinse l’Assunta, la Maddalena,