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, e tutto è vostro il villaggio, tutta è vostra l’ampia e libera largura de’ campi. I ruscelli cominciano a rappigliarsi in cristallo; le brine adornan dei loro diamanti alberi e virgulti; la neve, cadendo a larghe falde, copre di molle e candido strato la campagna, e cancellando gli avari termini del mio e del tuo, in un solo confonde tutti i poderi. In città l’inverno è l’agonia dell’anno, è una lunga noja, cui cercate invano d’ingannare e cacciare da voi con mille vani passatempi e rumori. In villa, il multiforme e cangiante aspetto della campagna basta per sé a rallegrarvi il cuore. Ivi un raggio di sole è una festa; un rivo che si scioglie e riprende il suo corso è il primo foriero della natura che si sveglia; un uccello che nuovo e pellegrino viene sull’alba a cantarvi sotto le finestre la sua canzone, è il nunzio (chi sa?) di più clementi giornate. A quella dolce sveglia sorgete dal letto, in cui ogni sera v’accompagna il sonno, senza né subiti terrori, né tetri sogni, né larve spaventose.

O come consolanti e puri sono fra la semplicità dei campi i pensieri del mattino! Le novelle dei vostri bovi, del vostro fenile, del vostro pollajo, del tempo che fa o che vuol fare, sono ben più innocenti e importanti per voi delle maligne storielle che in città al vostro levare vi reca il cameriere o il parrucchiere. E che importerebbe a voi in mezzo a quella beata solitudine, il racconto degli errori o dei rigiri degli uomini, o delle loro fallite ambizioni? In quel dolce asilo di pace, la moglie i figliuoli, gli amici vi diventati più cari, dimenticate i nemici. Io non so, ma parmi che la campagna ci renda migliori. Dopo una notte procellosa, scendere la dimane a visitare il vostro orto, che ancora dormiglia, e forse si desterà al primo sole: credete