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di quel petto sollevato per lo sforzo della respirazione, di quel ventre contratto per l’intensità del dolore, rimane in certa guisa temperato da quell’aureola di speranza che gli circonda il capo. La rappresentazione del dolor fisico non cade fuori dei confini dell’arte se non quando esso soffoca nell’uomo ogni morale energia. Ora, nell’Abele vedesi l’uomo che soffre sì, ma vedesi pure il principio divino che trionfa dei patimenti.
L’Abele giace supino, un po’ rialzato sul fianco destro, e colle braccia protese al di sopra del capo.
Attitudine naturale in chi è colpito di fronte, e colle braccia vuol tentare di farsi schermo alla percossa.
L’averlo poi voltato un po’ sul fianco fu arte nello scultore, per trovar qualche linea curva nelle gambe, le quali altrimenti avrebbero dovuto cader dritte entrambe.
Il capo è abbandonato come quello di persona moribonda, i capegli liberi e mollemente rappresi come per sudore mortale, la fronte corrugata esprime l’affannoso contrasto dei pensieri. In quanto alla verità delle forme, basterà il dire, che questa statua fu dai più creduta formata sul vero, tanta è la naturalezza e la precisione delle parti.
Queste parole, scritte da lontano e sulla sola vista del disegno, non vanno considerate se non come l’eco fedele di quanto fu detto intorno alla statua del Duprè dai più autorevoli scrittori fiorentini. Però, da quello soltanto che ne appar dal disegno, non parrà soverchia la lode a lui concessa, né esagerata la predizione, che egli sia destinato a stampare un’orma profonda sul sentiero dell’arte.
C. Tenca