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questo era vantaggio per lui, giacché, l’occhio educato per sì lungo volger di anni alla bellezza delle forme, difficilmente rinunzia a quel senso di compiacimento che desta sempre l’aspetto di un nudo ben modellato.

Solamente era da aversi cura che la gretta imitazione greca non scemasse verità all’espressione, e che le forme, anziché il pensiero, non predominassero nella statua e non si attraessero intera l’attenzione. Nel che parmi che il Duprè abbia raggiunto perfettamente lo scopo. Perch’egli ha dato un non so che d’ideale alle forme del suo Abele, e nel tempo stesso ne ha fatto, non già un eroe od un semidio, ma un tipo eminentemente umano. Né l’uomo, che moriva vittima mansueta e rassegnata colla parola del perdono sulle labbra, comportava le superbe forme dell’Achille che lotta morendo col fato. Nessuna convenzione quindi nell’Abele, nessun’ombra di stile, ma quella verità semplice e schietta, che ritrae solamente dalla natura.

Natura bella e primitiva, perché vicinissima al tipo creato e non degenerata pel succedersi delle razze, ma pur sempre natura.

Anche l’atteggiamento del moribondo pastore ha qualche cosa che rivela la superiorità del concetto morale.

In quelle membra dolorosamente stanche, in quello sfinimento di tutta la persona scorgesi bensì l’abbandono della vita fisica; ma dagli occhi conversi al cielo, dal volto che spira una tranquilla mestizia, dall’indefinita espressione d’angoscia e di desiderio che gli sta sulle labbra, vedesi il principio immortale che si spicca da quelle forme per ricongiungersi alla sua prima essenza. Nel volto dell’Abele havvi insieme collo sgomento di un male sconosciuto, quell’arcano presentimento della vita novella che lo attende. E l’affanno che provasi alla vista