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Questa fortuna parmi abbia toccato adesso all’autore dell’Abele moribondo, al fiorentino Giovanni Duprè. Povero e sconosciuto, ei lavorava d’intagli in una botteguccia di Firenze, sostentando la vita co’ suoi guadagni, e nutrendosi di un sogno che un dì o l’altro doveva essere avverato. Tra gli umili lavori della sua professione egli aveva sempre sentito in sé qualche cosa che chiamavalo a più alto destino, ei sapeva di essere artefice e artefice grande, se la fortuna gli avesse porto occasione di mostrarsi. Ma la fortuna gliene aveva sempre negato i mezzi, ed egli era stato costretto a
soffocare in sé quel nobile istinto che lo portava ai più grandi concepimenti dell’arte. E forse soccombeva, se la perseveranza, che vien sempre compagna ai grandi ingegni, non gli avesse fatto vincere quegli ostacoli materiali, che si frappongono sempre ai primi passi. Il Duprè voleva eseguire una statua, e per riuscirvi tesoreggiò sopra i modesti suoi guadagni, non badando né a stenti né a privazioni, finché non avesse posto insieme tanto da comprarsi la creta. Qualche amico, non più ricco di lui forse, gli venne in aiuto nell’impresa, ed egli poté finalmente cambiar i ferri dell’intagliatore nello scalpello dello scultore. E fu non piccolo trionfo per lui, e stupor sommo per tutta Firenze, allorché, presentato il suo modello alla vista di tutti nella pubblica esposizione, ei fu d’un tratto collocato per universale consentimento fra i più grandi artisti moderni. Il povero artigiano, oscuro il dì prima, diventò per la sola potenza del suo ingegno riverito e famoso nella sua città, e vide la sua opera fatta segno all’ammirazione del popolo ed alle lodi de’ più sapienti scrittori. Né gli tardò la commissione di eseguirla in pietra. Maria Nicolajevna, figlia