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iano le pubbliche esposizioni, per poco non crederebbe ritornato il secolo di Leone X, e rinato nei popoli l’entusiasmo dei nostri padri del cinquecento. Sventuratamente quello strepito e que’ dissidj non sono per lo più se non isfoghi di vanità e di personalità, e, peggio ancora, suprema necessità di ozio. Cosa strana e pur vera a’ nostri tempi, che tutti si credano bensì in diritto di spacciar giudizj sull’arte, e nessuno vi porti, non già profondità di sentimento estetico, ma neppure sincerità di convincimento. L’arte è considerata dai più come una professione o come un trastullo: manca nella maggior parte degli artisti la vera inspirazione, manca nella moltitudine l’amor grande ed efficace. E tutti sanno che né le accademie, né i premi, né le associazioni d’arte, né il facile mecenatismo non possono per sé, non dico creare, ma neppur conservare un’arte. E nondimeno tutti sentenziano di pittura e di scultura, come se ognuno possedesse esclusivamente il senso del bello, e si combatte una guerra accanita tra gli artisti, le accademie, gl’intelligenti ed il popolo, tutti arrogandosi particolarmente il monopolio delle lodi o del biasimo.

Che avviene da ciò? Nel cozzo di tante opinioni e di tante passioni contrarie la critica o tace, o si fa espressione d’un sentimento individuale ed isolato.

Talora, e più spesso, discende dalle regioni dell’estetica, e diventa o sfrontata adulazione o basso vitupero. E la moltitudine, avvezza ad apprezzar l’arte poco più che come un abbagliante ornamento, non vede in cosiffatta critica se non che una nuova fonte di trattenimento; e, quando pur qualche voce s’eleva di tanto in tanto severa e dignitosa a ricordare il vero scopo dell’arte, troppo facilmente la confonde con quel mare di ciarle,