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la maestà dei monumenti antichi, ha tutta la solenne mestizia delle rovine, perché è monumento di un impero che non è più, memoria di un ordine di cose che, quantunque cessato da brevissima età, è già fatto antico nei cuori, come se fosse morto da secoli e secoli. Veramente nel Moja è mirabile l’arte di trarre nuove applicazioni dall’arte stessa, mirabile l’impasto dei colori, il magistero di temperare le tinte più calde tra loro, ammorzandole poco a poco con bello e gradito effetto. Qui hai la bellezza del tutto e la finitezza delle parti, la precisione del disegno e Dello stesso tempo la franchezza di uno stile che non mai si scompagna da un fare immaginoso. Pochi certo gli potrebbero stare a pari nel giuoco dei chiaroscuri, nell’uso della luce che diresti illumini da sé stessa la tela, tanto naturalmente va a riposarsi a suo luogo più o men piena, vibrata o morente secondo la posizione degli oggetti. Nulla è dimenticato in questo quadro del Moja: ombre intere, mezze ombre, scherzi di luce riflessa che rimbalza dorata d’uno in altro oggetto, luce diretta che mano mano sfuma e dilegua dinnanzi all’occhio dello spettatore nei più intimi e profondi penetrali del santuario. Dovremo noi a sì valente artista, come si usa fare da molti, dir parole di encomio, animarlo a continuare colla stessa insistente lena onde ha finora percorsa la carriera dell’arte? Che bisogno ha egli delle nostre lodi e dei nostri consigli? L’obbligo di mantenere un nome sì meritamente procacciato è per lui potentissimo stimolo a sempre nuovi e più splendidi lavori.
Antonio Zoncada