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eserciti delle nuove palme acquistate a Venezia, sopra lontane spiagge.
Come in faccia a questa tela, vola il pensiero a quel dì memorando, quando gli inviati dei Franchi, di mezzo ad una generale adunanza (vedi Michaud, Storia delle crociate, lib. X), a nome dei più alti e più possenti signori e baroni di Francia, si gettavano ai piedi di quei repubblicani, domandando ajuto per la Terra Santa d’oltremare; e il popolo unanime gridava che li avrebbe ajutati colle sue navi, e tutta Venezia faceva plauso a quel grido, e sulla piazza di S. Marco, sulla piazzetta, per le vicine contrade, su pei canali, e per le lagune era un rimescolamento di popolo, un premersi, un urtarsi, un acclamar festoso, tanto che, giusta le parole dell’ingenuo cronista che vi fu presente, si sarebbe detto che la terra stesse per sobissare! Ben fu saggio il consiglio del nostro artista di non voler largheggiare in tal soggetto di macchiette: la grandezza di questo tempio non è nel presente, ma nel passato. Direbbesi che le nostre meschine vesti, l’aria indifferente dei nostri volti, la prosaica compostezza dei nostri atteggiamenti si disdica alla fiera gravità di questo monumento del Medio Evo. Oserò dire che mi sarebbe piaciuto ancor più di trovarvi quasi una solitudine assoluta, vedervi appena qua, là qualche divoto per guisa che lo spettatore si trovasse quasi solo dinnanzi alla muta maestà di quegli archi, di quelle colonne, di quelle logge, a meditare sulle glorie di un tempo, la cui memoria è impressa a caratteri indelebili sulle pietre e sui marmi.
Questo monumento che sorge di mezzo ad un popolo vivo, animato, chiazzoso, questo monumento nel quale trovi sì scarse le ingiurie del tempo, sente già tutta