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minutamente con nojosissima pazienza. Non ti par egli di essere trasportato in que1 tempio, sì vivi, sì naturali, si felicemente ritraenti il vero ti si affacciano le diverse sue parti? Il tuo occhio corre libero tra le colonne, fra gli archi sotto i volti superbamente fregiati di musaici, alle tribune, al doppio pulpito, alle logge superiori, e ammiri le pareti tutte incrostate di diversi e finissimi marmi, ammiri i magnifici fiorami che adornano gli archi, i diversi capitelli coi loro simbolici animali, il pavimento tutto a musaico, composto di un infinito numero di tavole quadrate, rotonde, ad angoli, e con altre assai forme diverse, piccole e grandi, con isvariati ornamenti di fogliami, di fregi, di animali, di piante, e cose simili. Che prestigio di colori, che assennata gradazione di tinte, che studio delle parti, che intelligenza dell’insieme, che cognizione delle ombre e delle penombre, che arte invidiabile di far campeggiare tutti gli oggetti colla debita proporzione di forza nelle tinte e nella luce, per guisa che paja che veramente l’aria vi corra tra mezzo! Il Moja non è di quei pittori che si accontentano di riprodurre una fedele immagine degli oggetti che rappresentano, nelle cui tele cercheresti invano la vita e l’espressione, rivelazioni che suppongono nell’artista un’intuizione troppo profonda perché si possa trovare negli ingegni volgari; il Moja sa animare ciò che rappresenta, interpretare il mistero di una bella scena della natura, il concetto di un edifizio innalzato da un popolo. Queste sono veramente quelle volte che un tempo risuonarono dei cantici della vittoria, questi gli altari dinnanzi ai quali si prostravano i Barbarigo, i Giustiniani, i Foscari, i Dandoli, i Morosini, rendendo grazie al Dio degli