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Santi, e Profeti, e Apostoli, e Angioli, e Cherubini, Cristo, la Vergine, l’Eterno Padre, si mostrano in cento diversi aspetti, gravi, ridenti, minacciosi, annunziando misteri di gioja, misteri di dolore, sopra le finestre, nei pennacchi delle cupole, sotto le cornici, sotto gli archi, nei volti, in marmo, in argento, in bronzo, tanto che l’occhio ne è come sopraffatto. Qui v’è una storia secolare delle arti italiane; le antiche figure, rigide, severe colle guance scarne, cogli occhi indossati e le membra esili, e come istecchite, che ricordano i digiuni, le macerazioni, le discipline, le lagrime di quell’indomiti atleti del Signore, contrastano colle più ampie, più morbide, più facili a diverse pose dei tempi moderni, nelle quali talvolta appare certo qual paganesimo dell’arte. Se io volessi qui ricordare ad uno ad uno tanti e sì diversi oggetti, finirci ad annojarti, non ti lasciando nell’animo altro più che un caos di parole, le quali nulla direbbero né al tuo pensiero, né al tuo cuore. Dove si tratti di descrivere le meraviglie dell’arte, la parola è manchevole; non potendo che accennare gli oggetti parte a parte, non arriva mai a dartene un’immagine complessiva, e mentre richiama da un lato la tua attenzione ti fa poi dimenticare gli altri con iscapito del tutto. Non v’è che la pittura che possa rendere nel suo complesso i monumenti dell’arte umana, ed in un solo aspetto raccoglierne le sparse bellezze. Questo fece appunto il nostro chiarissimo Moja, nome tanto caro agli amatori del bello, a quanti ammirano gli ingegni che serbano la gloria del nome italiano. Vedendo la mirabil tela del Moja ti farai di questo tempio una più giusta idea in un batter d’occhio, che non potresti farti altrimenti leggendo un volume che te lo descrivesse