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Matilde dunque anelava alla guerra e alla libertà, e fu felice quando potè strappare al compiacente fratello, che era entrato a far parte della Lega Lombarda, il consenso di precederlo e correre a Milano, alla testa di uno scelto drappello di cavalieri piemontesi, recando ai fratelli, assediati dal Barbarossa, il soccorso dei fratelli subalpini. E là, infiammando alla riscossa i più timidi, scaldata alla sua volta dall’eloquente parola di Arnaldo da Brescia, combattè, vinse, e tornò a combattere ancora, finchè non fu veduta da Federigo, che se ne invaghì alla follia. Il belligero Imperatore, che sacrificava con pari entusiasmo tanto a Marte che a Venere, non tralasciò da quell’istante di circuirla, e si stimò felice allorchè essa, audace e, diciamolo, irreflessiva, in uno scontro testa a testa con un guerriero del seguito di lui, tanto compromesse la sua posizione, che quegli, stanco di combattere, gettò la spada e riuscì a ghermirla alla vita, ed a farla sua prigioniera.

In breve il Barbarossa, sempre più attratto da quella fina bellezza, le ebbe posto la scelta tra l’infamia e la morte. Ma l’impavida giovinetta, senza punto commuoversi, rispose: «Son ramo di Casa Savoia, e questa Casa non ha mai dato esempio di viltà! Ben venga la morte!»

E sarebbe venuta davvero, se il guerriero sconosciuto, che l’aveva vinta per sorpresa, e che recato le aveva la volontà di Federigo, colpito da tanta virtù, non avesse invece voluto salvarla. E vi riuscì; e tanto crebbe la di lui ammirazione per l’eroica fanciulla da