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E nient’altro di nuovo in fatto di teatri; al S. Carlo si pensa ancora all Aida e si promette il Ballo in maschera con la Bruschi-Chiatti, che non si è più sciolta, Sani, il Kaschmann, la Synnerberg e la Grippa. La maggiore importanza artistica ha avuto il concerto della Società del Quartetto. Vi suonò il Cesi il Notturno in si e la Polacca in fa diesis minore di Chopin, ed il Monachesi, venuto per invito speciale, da Roma, la Sonata per violino e pianoforte in la di Beethoven. Il Cesi, come il Baiardo, è l’artista sans peur et sans reproche: suonò inappuntabilmente. Il Monachesi non manca di slancio, ma ha maggior merito per la castigatezza, per l’eleganza, per la perfetta intonazione, per la bella qualità di suono: spesso mi fe’tornare a mente il valore di Ferdinando Pinto. Molte feste furono pur fatte allo stesso Cesi, al Monachesi medesimo, allo Zingaropoli ed al De Filippis, eccellenti interpreti del Quartetto, op. 47, dello Schumann. Questo pezzo, per altro, non incontrò le generali simpatie. Salvo lo scherzo, che è stupendo, sebbene ispirato da una potente idea sinfonica del Beethoven, il resto non è fatto per esser gustato in una gran sala e da numeroso uditorio. Troppe idee tematiche, palese di frequente, per conseguenza T artifizio scolastico. Alla Società medesima si daranno altre due tornate; vi prenderà parte il Martucci. Avremo altresì tre concerti orchestrali; in uno sarà eseguita la Quarta Sinfonia del Beethoven. Venerdì sera avremo il concerto Cesi. Eccovi il programma: Bach: Concerto in do per due pianoforti; Martini: Sarabanda; Grazioli: Minuetto; Couperin: Les Moissonneurs; Scarlatti: Aria e Giga; pezzi tutti trascritti daT Cesi, il quale farà pure udire la Sonata ^3 di Chopin, quella celebre della Marcia funebre. Si udirà poi del Thalberg, alcuni luoghi delle Soirées de Pausilipe; la Notte di primavera e II canto della sera dello Schumann; quella trascritta da Liszt, questo dal Cesi medesimo; La cavalcata delle Valkirie, trascritta dal Tausig. Il Cesi poi, oltre il pezzo del Bach, sonerà, sempre col Martucci, Y Andante con variazioni del Rubinstein, ed il Phaéton di Saint Saéns. Le varie parti del programma, esclusivamente pianistico, saranno intermezzate da esecuzioni affidate agli strumenti ad arco, e dirette dal Martucci. Un discreto concerto ha dato il pianista Roche, allievo del Palumbo. Questo valorosissimo maestro è stato nominato testé professore di pianoforte nel R. Educatorio femminile di S. Marcellina. È qui da varii giorni ed occupa il posto di direttore del nostro Conservatorio il chiarissimo comm. Pietro Platania. Dal contrappuntista esimio, dall’esperto direttore attendonsi grandi cose; la sua nomina ha incontrato le simpatie di tutti. È morto in un paesello delle vicinanze Achille Valenza. Si era provato al teatro ed una sua opera ebbe certo giro nelle provincie meridionali. Ma dopo la fortuna non gli fu propizia. Al successo felice delle Fate, non corrispose quello del Mondo, secondo lavoro, che fu pur dato al teatro Nuovo, come la prima. Sfiduciato, non iscrisse altro e si occupò dando lezioni di canto e di pianoforte. Ma non avendone più, dovette acconciarsi in un paesello della Sicilia come capomusica, organista, e quando davasi spettacolo, fungeva pur da direttore d’orchestra. Per un’infermità dovette rimpatriare e qua è morto in grande miseria, in un tugurio a S. Giovanni a Teduccio. Ha seguito nella tomba e nelle medesime condizioni, i suoi maestri Moretti e Zoboli. Cadono come le foglie di autunno e uno più miseramente dell’altro, i compositori che si divisero l’imperio della moda, una brutta moda, ahimè! al teatro Nuovo, dal 1850 al 1860! Acuto. BOLOGNA, 6 Febbraio. «. il Ricapitoliamo — Le pillole ai lettori — Quello che è nel sacco — Siate brevi! — Checca Biagi — Avvocato 0 Maestro? — Le conferenze su Donizetti e Rossini — Verdi emanazione Rossiniana? — Crescentini dopo Mozart — Un adagio paradisiaco — Il Trio premiato — Promissio boni viri... — Un vecchio proverbio — Il concerto al Felsineo — Nuova interpretazione di musica vecchia — L’Ouverture di Orefice. niCAPiTOLiAMO. — Ricapitoliamo poiché ho di molte cose nel sacco; e non vorrei — nella furia di vuotarlo — dimenticarne qualcuna — sarebbe stato prudente avviso dividerle in tante pillole — una per corrispondenza — ma Samiel fu ammalato e le pillole — invece di darle a’ suoi lettori — ha dovuto inghiottirle lui. Un’opera nuova a Ferrara, due conferenze musicali nella sala della nostra Lega per l’istruzione del popolo, il primo concerto della stagione alla Società del Quartetto — dove si eseguì il Trio, premiato, di Adolfo Crescentini; un concerto orchestrale alla Società Felsinea, sotto la direzione di Luigi Mancinelli e poi... e poi mi pare che basti. Ora domando io — come si fa a costipare tutto ciò in poche linee? Eppure l’ultima parola d’ordine della direzione della Gazzetta — come da sua circolare a stampa — è: siate brevi! Ha ragione da vendere la sullodata Direzione; non vuol essere complice dei brodi lunghi che talvolta — noi corrispondenti — con tranquilla ferocia diamo a bere agli amici lettori, guastandone lo stomaco. Intanto eliminiamo il primo argomento — per non invadere il campo del bravo Estense che ha già espresso il suo giudizio, il quale — fra parentesi e chiusa — io non divido completamente — e passiamo alle conferenze. La prima su Gaetano Donizetti venne letta dall’egregio critico musicale avv. Francesco Biagi. Checco Biagi — così lo chiamati tutti qui — è un tipo sui generis. Anche lui ha il suo tic: una specie di forza irresistibile, per la quale non può a meno di morsicchiarsi continuamente, Ugolinamente i mustacchi. Colla testa è spesso nelle nuvole, e niente di più facile d’imbattersi in lui che corre come un disperato alle Assisie a difendere un ladro — con uno spartito sotto il braccio, e magari poi ad un concerto con un fascicolo di carte legali. Difatti, andate al palazzo di Giustizia e chiedete dell’avvocato Biagi e vi risponderanno che il maestro Biagi è in udienza; parlate con qualche musicista del maestro Biagi e vi ribatteranno che essi conoscono l’avvocato Biagi. Avvocato o maestro? — Ecco una sentenza che naturalmente lascio risolvere ai posteri! Basta, egli ei parlò di Donizetti per tre quarti d’ora, riassumendone la vita gloriosa e travagliata e facendoci conoscere due lettere di lui — scritte in due diverse epoche — e che anch’io trovai interessanti. Alla fine della conferenza fu vivamente e meritatamente applaudito. Uguale e simpaticissima accoglienza ebbe Pier Francesco Albicini nella sua — tenuta mercoledì scorso — su Gioachino Rossini. Se non raccontò — a proposito dell’immortale Pesarese — fatti nuovissimi, fece però alcune giuste e sensate osservazioni, fra cui noto quella ove stigmatizzò i papagalleschi scimiottatori di Rossini e di Wagner, i quali per un verso caddero nell’esagerazione del triviale, e per l’altro nell’esagerazione dell’astruso e del confuso — aggiungo io. Non condivido però l’opinione dell’Albicini che fra le dirette emanazioni di Gioachino Rossini, sia da comprendersi il Verdi. Sarebbe ora troppo lungo il dimostrare ciò; ma così — a occhio e croce — sembrami che il temperamento, il sistema nervoso musicale di Giuseppe Verdi fosse e sia un po’ dissimile dal Rossiniano, e anche ammesso che per qualche tempo l’uno abbia seguito la’falsariga dell’altro — quegli doveva scostarsene presto e presto individualizzarsi, come del resto accadde. Una cosa comune ebbero: la scintilla, quella benedetta scintilla che oggi — picchia e ripicchia — scaturisce rara e si spegne subito. 3^* Domenica la sala del nostro Liceo era au complet: la Società del Quartetto inaugurava la serie de’ suoi concerti per l’anno 1885, coll’esecuzione del Trio in mi minore del giovane maestro Adolfo Crescentini, premiato con medaglia d’oro al concorso bandito dalla Società stessa il primo febbraio dell’anno scorso. Nel programma della matinée erano compresi anche due altri pezzi e cioè: il Quintetto III in sol minore (op, 8) di Mozart e l’Ottetto in mi bemolle (op. 20) di Mendelssohn. Crescentini si trovava fra i due grandi classici e poteva tenersi onorato della compagnia. Io trovo però che il porre una composizione — per quanto pregevole — di un giovane mastro — dopo un colosso della forza di Mozart è un tantino arrischiatello. Dovendosi giudicare un lavoro nuovo è buona cosa che la nostra mente sia libera da qualunque impressione e non poteva esserla — per tutti gli Dei — dopo una esecuzione paradisiaca di quella paradisiaca ispirazione che è l’adagio del Quintetto Mozartiano. Un’adagio dove la melodia sgorga limpida, serena, affascinatrice, dove ei tocca il cuore e ei mette i brividi per Tossa e più d’una volta ei fa sovvenire il Bellini della Sonnambula, come il primo tempo della Sonata in do ’diesis minore di Beethoven ei fa pensare il Bellini della Norma. Lo debbo confessare: quando il Crescentini, col Sarti — violinista — e col Serato — violoncellista — attaccò il primo tempo del suo Trio, non ero ancor giunto a dimenticare la profonda sensazione in me prodotta dal Quintetto di Mozart — il quale pure era per me cosa nuova. E ciò forse nocque a quella serena attenzione indispensabile e che io volevo pure serbare pella composizione premiata. Il Trio ha la classica divisione dei quattro tempi: Allegro animato un poco maestoso — Largo — Molto vivace (scherzo) — Allegro con fuoco (finale). L’impressione generale che ne ricevetti fu questa: un lavoro ben pensato, ottimamente condotto ed in molti punti non privo d’ispirazione. Lo stile non sempre uguale — in alcuni tempi rigorosamente classico, in altri libero. Ma questo non è tale difetto — almeno secondo me — da pregiudicarne i molti meriti. Trovo piuttosto che nello sviluppo, nella condotta delle tre parti non ha saputo conservare un giusto equilibrio. Il pianoforte predomina ed il Trio — in taluni momenti — lo si direbbe piuttosto un concerto per pianoforte con accompagnamento di violino e violoncello. Questa mia impressione — piuttosto che giudizio — potrebbe anche essere scaturita da una esecuzione troppo nervosa che il Crescentini diede alla sua parte; pareva quasi ch’egli temesse di non essere sentito, e non s’accorgeva che tutta quella foga di picchiare — tecnicamente esatta ma esteticamente poco bella — nuoceva al colorito e quindi al valore della composizione. Bello T adagio — di una serena maestà beethoveniana — e buonissima tutta l’ultima parte dello scherzo, dove la chiusa specialmente mi co.lpì per la novità e per la spontaneità del pensiero melodico. Non debbo dimenticare che ora si è tutti ansiosi di sentire il Trio premiato colla menzione di Giulio Ricordi; dello schermo specialmente se ne susurra mirabilia. Mancinelli ha promesso di farlo eseguire e noi sappiamo che Mancinelli è tm bonus vir, cioè che quando lui promette — a tutti i costi mantiene. Chi ben comincia è alla metà dell’opera, dice il’vetusto proverbio. E così il nostro Club Felsineo — che conosce e segue la sapienza popolare — ha incominciato i suoi trattenimenti per la stagione carnevalesca — aprendo le ricche sale ad un riuscitissimo concerto orchestrale diretto da Mancinelli. Il programma non aveva cose nuove — tranne un’Ouverture del giovine Orefice — ma buone ed opportunissime per T ambiente. La Sinfonia della Forza del Destino, la Rapsodia Spagnuola, la Gavotta ed il Fandango di Bizet, la Danza delle ore della Gioconda e la Ottennero i rono eseguite intermezzi del Sinfonia del Rienzi. maggiori applausi per il fuoco, lo slancio grandissimo con cui fula Sinfonia della Forza del Destino, la Danza delle ore ed i due Bizet. Anzi la Danza delle ore fu bissata fra l’entusiasmo di tutti e — bisogna convenirne — fu l’unico bis. Il Mancinelli — colla sua indiscutibile versatilità e spontaneità interpretativa — seppe dare a questi pezzi una tinta fresca nuova, traendone un colore vivo, meridionale, direi Michettiano, tale che quei quadri musicali apparvero riflessi da una luce fino ad ora non tentata. La composizione dell’Orefice piacque; scolasticamente.sembrò una cosa perfetta, ma tutti notarono la mancanza di quel bel difetto — che vorrei sempre nei giovani — la troppa abbondanza delle idee. Questa Ouverture in fondo non era che uno scientifico menar il can per l’aia di due idee; una di queste anzi ponendola anche semplicemente avanti la luce di una candela — avrebbe trasparite le parole: secondo atto dell’Isora. Del resto il giovane allievo ammira,.ama e venera il maestro Mancinelli e le sue opere. Chi di noi saprà dargli torto? — Samiel.58