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ogni quartale anticipato. Queste celebrità importano dai teatri dell’estero tutti i barocchismi e le viziature alle quali essi stessi hanno abituato quei pubblici. Poi c’è la buona abitudine del cantare in un’opera meno che si possa. L’artista celebre canta con tutto l’impegno una romanza o l’aria ed il duetto colla donna: ne’ pezzi concertati si fa un preciso dovere di non aprire la bocca; anzi c’è la frase d’uso ch’essi, questi grandi artisti, impiegano per designare tutto ciò che devono tacere — Ah! qui cantano gli amici! — Questi amici sono le seconde parti ed i coristi.
A proposito di puntature voglio citarne una inventata da un baritono che godeva certa quale riputazione e ch’egli diceva avere suscitato entusiasmo al teatro Reale di Madrid. — Si provava nel ridotto di un gran teatro d’Italia il Ballo in maschera di Verdi; e ad una delle ultime prove, il maestro al cembalo pregò l’artista che faceva Renato di accennargli (gergo teatrale) la romanza Eri tu che macchiavi... Tutto camminò per bene, se non che, giunti al punto dove l’autore scrisse la frase:
ecco che il baritono del Reale teatro di Madrid vien fuori con
questa bellissima uscita:
Il maestro al cembalo diventò rosso dalla vergogna, lui per l’esecutore: questi, pregato da quello promise che soltanto dietro le sue preghiere non avrebbe fatto la puntatura, ma che però a Madridde, ecc., ecc. — E questa è storia, perchè posso dire nomi e cognomi e il ridotto nel quale dovette arrossire quel povero maestro al cembalo, sentendo quella peregrina trovata.
Nè tutti i maestri concertatori e direttori di questi grandi teatri forastieri hanno coscienza artistica. Vero sarà che alcuni, forse i più, devono a loro volta essere proni e ligi ai capricci od ai voleri dei divi o delle dive, i quali trovano sempre l’impresario che presta loro mano forte per dar torto al maestro concertatore o direttore. Nè manco in certi casi all’impresario si può dar torto perchè egli ragiona così: «il cantante B o C mi riempie la cassetta tutte le sere e se io lo disgusto per darla vinta al signor maestro, i primi a soffrirne sono i miei affari: di maestri ne troverò a centinaia, ma se privo il mio pubblico dell’artista B o C, egli diserterà dal mio teatro ed allora con che cosa pagherò la mia compagnia?»
Gli è il pubblico stesso che dovrebbe essere più intelligente e non lasciarsi prendere a gabbo da quegli artisti che saltano magari interi pezzi di musica. — I lettori devono ricordarsi di un bello spirito che intentò un processo al direttore dell’Opéra di Parigi, perchè il tenore che cantava la Favorita lo aveva defraudato di un pezzo di musica. Difatti quel tenore, come è di consuetudine e di tradizione in tutti i teatri del mondo, aveva omessa l’aria colla quale si chiude il primo atto. — Sì, che un solo tuo accento. — Il buon provinciale che assisteva alla rappresentazione col libretto dell’opera alla mano, non volle trangugiare il boccone amaro di questa omissione; ma il tribunale, giustamente sentenziando che quella omissione era consacrata dall’uso di tanti e tanti anni, diede causa vinta al direttore dell’Opéra, che, se non mi inganno, era il testé defunto Vaucorbeil.
Certi pubblici dei teatri di Spagna però non fanno così in simili ma più ragionevoli casi. Mi ricordo che in un piccolo teatro d’una ricca città del nord della Spagna, si produsse la Maria di Rohan. La prima donna, giunta presso a poco a quell’età che fa dire a Mefistofele di Marta: la vicina è un po’ matura... volle tagliare il bellissimo duettino fra soprano e tenore nell’atto terzo. È un duettino amoroso, che gareggia in ispontaneità con quello del Don Pasquale. Il tenore, attempatello, Chalais, anche lui non dimandava di meglio che di lasciar fuori questo duettino, perchè la gola si ribellava assolutamente alla più piccola smorzatura.
L’orchestra quindi, quella sera, suonò il breve ma solenne preludio dei corni, cui fa seguito un recitativo fra i due non ancora palesi rivali e Maria: partito Chevreuse restano i due amanti soli in iscena, ma con grande sorpresa del pubblico, ben presto se ne andò anche il tenore e Maria si accingeva a cantare la sua aria — Avvi un Dio che in sua clemenza. — Il pubblico proruppe allora in urli, si diede a pestare i piedi (pateàr nell’idioma spagnuolo) e non ei fu verso che lo spettacolo continuasse, il pubblico pretendendo che si eseguisse il duettino come era indicato dal libretto. — El señor alcalde (sindaco) mandò ad intimare all’impresa una buona multa, più la sospensione delle recite fino a nuovo avviso. — Cosi facendo si abituerebbero bene i signori impresarî a salvaguardare un po’ l’integrità delle musiche che essi danno in pascolo al pubblico.
Un altro pezzo che rinnovò in Ispagna un consimile fatto fu l’omissione del duetto fra Paolina e Severo nel Poliuto, duetto che contiene, data la forma di quel tempo, dei bellissimi squarci melodici e giova a dar risalto e varietà al dramma.
Ed è decorosa per quegli artisti che si prendono tante decine di migliaia di lire la soppressione costante del duetto fra Lord Enrico Asthon ed Edgardo di Ravenswood nella Lucia? Non è questo un pezzo di musica di indole altamente drammatica, tanto da mettere in vista anche il talento scenico dei due cantanti?
Altro mezzo per dare al pubblico il meno che si può è quello, diventato ormai una regola generale, di cantare una sola cabaletta. Non arriccino il naso i nostri progressisti e saltino pur via; già, tanto e tanto, questo articolo non è per loro. Data la convenzionalità della musica italiana, di quell’epoca dove si trovavano i pensieri musicali, dove si sapeva scrivere per la voce, bisogna accettare la forma del pezzo di musica. Alcune celebri cavatine, alcuni rondò sono composti di un preludio, di un gran recitativo, qualche volta preceduto da un coro, di un adagio, di un tempo di mezzo ed infine d’un allegro ossia cabaletta, in origine cappelletta, o cosa che serviva da cappello, per finire.
Così è costituita la cavatina della Norma, così il rondò dell’Anna Bolena, la cavatina ed il rondò della Lucia di Lammermoor, la grande cavatina di Paolina nel Poliuto e via dicendo. Chi non vede che levando una delle cabalette, cioè una parte dell’allegro, tutta l’economia dell’orditura del pezzo ne viene guastata e che esso riesce alla fine a far la figura di un moncherino?
Accennai a proposito di tagli ai teatri stranieri. Ecco per esempio come è eseguita in alcuni grandi teatri dell’estero quella peregrina musica dei Puritani. Nell’aria di Riccardo si omette la ripresa dell’allegro in sol — Bel sogno beato — passando subito alle cadenze finali in felicità, che sono proprio la piaga di queste nostre sublimi musiche. — Nel duetto fra Elvira e Giorgio si taglia tutto l’insieme delle due voci, passando come di solito alle cadenze. L’allegro del gran finale — Ahi! dura sciagura! — e dell’atto primo è tagliato per metà. Nella scena della pazzia di Elvira, dopo d’aver soppresso una parte dell’adagio, si salta di piè pari all’allegro — Vien diletto è in ciel la luna — ed i due interlocutori, il baritono ed il basso, se ne vanno via, lasciando che la povera pazza rientri nelle sue stanze, senza un cane che ne la riconduca. Ma il taglio capitale è quello della gran scena finale, allorquando Arturo supplica i suoi nemici ad avere pietà dello stato in cui si trova la povera Elvira e prorompe in quello straziante cantabile — Credeasi misera da me tradita. — I feroci puritani cui tarda l’ora della vendetta mormorano fra loro — Che s’aspetta alla vendetta? — E qui Bellini con lamentoso fraseggio di violini, con certe peregrine e sospirose none minori, scrisse il bellissimo fra i belli de’ suoi lavori. Si crederebbe? tutto ciò viene sprezzantemente tagliato. Ecco le belle, le buone abitudini dei grandi teatri dell’estero. Questi si portano via i nostri migliori artisti, i quali diventano una specie di gente intangibile davanti ai quali la musica cessa d’essere arte per divenire mestiere.
Vuolsi avere una prova di più circa la verità di quello ch’io vado scrivendo? Pochi anni fa si produsse sulle scene di un principalissimo teatro d’Italia un’artista straniera, la quale veniva preceduta da una grande nomèa. Non è a dirsi se il teatro fosse quella sera stipato e quanto grande fosse l’aspettativa nel pubblico. La Lucia era l’opera scelta da quella celebre artista, la quale del resto era tutt’altro che priva di mezzi vocali, di certa valentia tecnica, e di talento scenico. Fino dal recitativo della cavatina il pubblico si trovò dinanzi ad una Lucia ch’egli non conosceva. I movimenti, le intenzioni, le frasi, i passi tutto era stato cambiato. Quella Lucia non piacque. Un’altra sera fu la volta di Gilda nel Rigoletto collo stesso effetto sul pubblico. Lucia e Gilda erano state americanizzate: il pubblico, così contraffatte, non le volle accettare. Quell’artista piangeva e si contorceva per la rabbia in sulla scena.
A qualcuno potrà per avventura parere che io sia caduto in esagerazione, ma così non è: quello che venni disadornamente esponendo è proprio lo specchio fedele delle condizioni in cui l’arte italiana si trova nei grandi teatri dell’estero. La cosa cambia però totalmente allorquando si tratta di opere moderne, le quali stanno sempre, dal più al meno, sotto la tutela dell’autore, od in sua rappresentanza, dell’editore.
Nè bisogna credere che io abbia voluto mettere tutto a fascio e gli artisti ed i direttori. Manco per sogno; io parlai schiettamente, in massima, e sono il primo a riconoscere come all’estero figurino uomini preclari, i quali sanno mantenere vivo il prestigio della nostra vecchia e bella musica: ma questi sono un’eccezione; e l’eccezione, tutti lo sanno, prova la regola. E fra i nomi di cantanti che all’estero fanno pure onore all’arte, uno solo per tutti voglio citare: il nome di Adelina Patti, la migliore Zerlina od Adina, Rosina, Amina, Dinorah ch’io m’abbia mai sentito. — Edwart.