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GAZZE T T A MUSI vi canta l’orchestra e sono un canto perfino le più dotte combinazioni armoniche. L’armonia completa, la melodia, l’orchestra, le voci, e queste e quelle aspirano ad uno scopo: ad unificare l’azione, a trarsi in mezzo ad essa, in médias res come diceva Orazio, il massimo dell’effetto cui pissa aspirare l’arte drammatica; e ei riescono. Ne volete una pruova di fatto? Ebbene! quell’entusiasmo che vi trascina tutti profani e cultori dell’arte, in quelle 8 battute che sono alla fine della prima parte del terzo atto; queste poche note che vi strappano l’applauso, che vi agitano, che vi elettrizzano fino al punto che voi durate pena a rimaner seduti, ad obbedire a certi riguardi sociali, vi commuovono soltanto forse per la loro bellezza ritmica, pei’ la grande sonorità? Questi sono accessorii. La ragione vera è che quel punto è tutta la sintesi del dramma, il sommo della parabola che il soggetto principale, il tema ha percorso — l’amicizia — e la divinazione della sua discesa fino al sacrifizio, fino alla morte. Quelle note sublimi sono l’ultimo tocco del gran pennello che compie il ritratto di quei due amici che voi avete imparato ad amare in tutto lo svolgimento dell’azione precedente: — Carlo, dall’accento passionato, che ama fino alla disperazione ed è troppo infelice perchè talvolta il dubbio non gli corra alla mente e troppo sincero perchè non gli prorompa sul labbro; Rodrigo, dalla fede immutabile, dalla parola franca e leale, ritrattavi con quel canto sempre affettuoso ma piano, sempre tenero ma calmo e sensato, con quella frase larga, determinata, schietta. Quella ispirazione è il più alto concetto dell’opera: più audace di Michelangelo che percuoteva il saio Mosè perchè parlasse, Verdi non chiede la parola a quei due caratteri, ma rapisce loro il pensiero e dà la favella all’orchestra che lo rivela. Se Verdi non l’avesse fatto, vi pare che voi lo avreste sottinteso — tanto quell’idea in quel punto era opportuna, necessaria, fatale; ed il vederla espressa ed a quel modo vi commuove perchè la verità è al colmo, perchè quella idea è vostra in tutta la sua estensione, perchè l’artista vi invade l’anima e la sua si confonde con la vostra, e voi partecipate all’azione, vi sentite quasi artisti voi pure. Questa efficacia, proporzionatamente, la vedete in tutte le altre parti dell’opera che, man mano che si svòlge, va sempreppiù determinandosi, ed allora la frase melodica si spiega pili larga, più spiccata, l’istrumentazione diviene più distinta, piglia la potenza della parola; e l’una e l’altra v’incalzano, vi perseguitano quasi, vi trascinano nel più forte della evidenza drammatica. — Esempi: il terzetto tra Eboli, Carlo e Rodrigo; tutta la parte seconda del terzo atto, e specialmente la grandiosa scena dov’entrano i fiamminghi; tutta la parte prima del quarto atto; la scena della carcere e l’ultima della maledizione. Questa luminosa evidenza risulta dalla verità dei caratteri, dalla convenienza delle circostanze. Don Carlo è come un quadro maraviglioso, dove tutto è nella sua vera luce, tutto è proporzione, tutto è varietà ed armonia. Non c’è una nota, una sola nota che esce dal carattere preso a ritrarre. Ed ogni carattere è compiuto, perfetto. Vedete, per esempio, la dolce, onesta, affettuosa ed infelice Elisabetta, che è segno alle più delicate cure di Verdi; che carattere finito, perfetto! tutta la vita di lei, l’amore, i dolori, le virtù, i dubbi, le speranze, il passato, il presente e l’avvenire — tutta questa variatissima epopea è riassunta nelle soavissime e melanconiche melodie della scena prima del quinto atto, temperate e compiute dal concorso di uno strumentale che sembra lavoro di cesello. Questi personaggi, queste figure, fatte vere, viventi, questi caratteri che o da soli o raggruppati si avvicendano nello svolgimento dell’azione, una pel tema che imperiosamente la domina sempre, varia per tendenze, per affetti, per contrasti di passioni, condotta con una robustezza di concetto che vi sbalordisce, con una tecnica disinvolta e padrona di tutte le risorse, di tutti i colori, di tutte le più diverse gradazioni e sfumature che possano trovare la fantasia più feconda, il gusto più corretto, più fino, più puro, più elegante, con la splendida ricchezza di una strumentatura impareggiabile, tutto questo tesoro di bellezze vi dà quella realtà, quella vita, quella luce, quel mondo artistico che dicevamo cominciando e che ei ha commossi fino all’entusiasmo, che ei fa udire che il dramma italiano è nato grande, che il Don Carlo di Verdi è pari in altezza al Don Carlo di Schiller.

★ ★ Non è nostro intendimento lo scendere ora ai particolari. Quando pure volessimo, sarebbe difficile di farlo con esattezza, dopo udita una sola volta una musica come il Don Carlo, e sarebbe tema di maggior lena che non sia un solo articolo di giornale. Ma, dette le impressioni nostre, vediamo un poco quelle del pubblico. Si dice da alcuni che la nuova maniera, questa nel Don Carlo, non piace alle moltitudini italiane; non è compresa, non piace a Napoli: dunque non è bella. Si può rispondere che l’artista quando crea non può guardare ai gusti delle masse; se il facesse, l’opera sua nascerebbe corrotta, malata di quei difetti e di quei pregiudizi! che sono nel volgo. L’artista vero, il genio, è appunto tale perchè si leva su quello: egli intuisce i bisogni, le tendenze dei suoi tempi, ne precorre lo sviluppo, ne divina e ne dirige il pensiero — è il vates; impone e non si fa imporre, forma e corregge il gusto. Se la nuova maniera ò difficile perchè non compassata in ritmi scanditi con tale uniformità che un’aria, una cabaletta vi rimanga nell’orecchio appena udita, vorrete dir per questo che sia più naturale, più vera, più reale, codesta forma di quest’altra, che, sciolta da quella misura e da quella siCALE DI MILANO 113 metria, studia a procedere spigliata e franca come la parola nel discorso, come la frase del dialogo famigliare, cercando la sua forza nella espressione più profonda del concetto? Non si ritiene forse più facilmente a mente una sestina di settenari! di altri piccoli versi e massime se rimati! che non una sestina di versi sciolti? e perchè più vi piace quel metro e la rima, diventerà forse quel genere di versi più adatto alla tragedia, al dramma che non sia il verso sciolto? e si potrebbe sostenerlo oggi che in un dramma che vuol essere vero, di buon gusto, nè il verso endecasillabo sciolto, nè martelliano devono essere ammessi, perchè non è naturale, perchè non è vero che tutti parlano in versi, ed è invece vero, è reale il contrario? Non si può dunque ritenere per solo bello tutto quello che piace, non si può ritardare il progesso dell’arte, quando appunto il tempo è giunto di progredire, per non dispiacere alle moltitudini; questo gusto ha bisogno di essere riformato e l’artista dee farlo, preparando la transizione ma senza smagarsi per difficoltà che incontri tra via. Qual’è la riforma, quale il progresso che non ne trovi ingombro il suo cammino? A chi oppone poi che la nuova maniera di musica, che il Don Carlo non si comprende dai più, si può rispondere che questo può esser vero fino ad un certo punto per chi, abituato a vedersi l’opera spartita in tanti brani, sminuzzata in tanti pezzi, dura fatica a seguire la nuova maniera che tira diritto secondo detta il tema, come avviene di certi lettori cui non regge l’animo d’ingollare un capitolo di un libro, sia pure ameno, se non centellinandolo in paragrafi di IO a 20 righe l’uno. Ma un po’ d’attenzione ei vuole in tutto; costa sforzi e fatiche anche il piacere. Ed anche non negando che il dramma musicale esiga un po’ d’attenzione maggiore che la musica che diciamo lirica, se ne ha compenso, e ad usura, nella più forte impressione che si riceve e nel diletto prodotto da quei canti distinti, spiegati che, senza le strettoie di forinole e di artifici! convenzionali, sgorgano liberi e potenti, come nel Don Carlo, dal naturale svolgimento dell’azione... e si comprendono — si rassicurino gli oppositori, e se ne vogliono una prova, vadano a S. Carlo. Ma poi, hanno forse compreso mai codeste moltitudini, delle quali si ha tanta tenerezza, i vecchi recitativi, i legami, gli attacchi, tutte le transizioni da una scena all’altra, da questo a quel pezzo? eppure non ei sono stati sì lungo tempo e non ei sono ancora? La questione dunque non è se l’opera piaccia o no, ma se meriti di piacere; quanto all’intendere, un po’più amore per l’arte e un po’ meno sobillazioni interessate sono il miglior maestro e la migliore scuola. Del resto, non mancano argomenti di fatto. Or fanno 41 anno, la sera del 26 dicembre 1831, fu rappresentata la prima volta alla Scala di Milano la Norma di Bellini, dalla Pasta, dalla Grisi, da Donzelli e da Negrini. Di quella sera memoranda Pacini scriveva ad un amico:» Ho veduto piangere Bellini dopo la rappresentazione del suo capo d’opera. „ E sapete perchè, su questo che a giudizio di Pacini era un capo d’opera, piangeva il cigno catanese? La risposta è in queste parole che togliamo da una lettera scritta da lui la sera stessa dello spettacolo, appena uscito di teatro, al carissimo amico suo, l’egregio maestro Fiorimo, archivista di S. Pietro a Maiella: «Carissimo Fiorimo, Milano, 26 dicembre 1831. «Ti scrivo sotto il peso del dolore, di un profondo dolore che non posso esprimere qual sia, ma che tu solo sei capace di comprendere. Vengo dalla Scala. Prima rappresentazione della Norma. Lo crederai tu? Fiasco! fiasco! solennissimo fiasco!» Il fiasco della Scala ha forse impedito che la Norma, che tra tutte le opere di quella maniera è la più drammatica, se non ei si vuol concedere addirittura che sia la prima, ha impedito che sia stata riconosciuta davvero e sia rimasta il capo di opera di Bellini? Ora, 41 anni dopo, qual’è l’insuccesso toccato in Italia al Don Carlo che, in fatto di colore drammatico, sta alla Norma appunto come il dramma sta alla lirica? Nessuno. Applaudito su tutti i teatri d’Italia e stranieri, lo fu anche in Napoli due anni sono, quando lo si era disformato, mutilato, contraffatto, ed ora procura ogni sera agli artisti ed al maestro ovazioni straordinarie. Ebbene — anche volendo conceder tutto — sopprimete gli applausi; rimarrebbe sempre il dramma non applaudito ma non disapprovato. E non è questo un progresso al paragone dell’infelice accoglienza toccata alla Norma? e questo progresso non dimostra per lo meno che già il gusto italiano si è modificato, che la nuova creazione risponde ai bisogni presenti e piace, non foss’altro, alla parte più eletta della società ch’è destinata a condurre, a dirigere le masse? Ma piace, infine, anche a queste: è questione di pili o men presto; ma chi va a San Carlo ogni sera, vede che Don Carlo piace, sempre più, a misura cha meglio s’intende. Ammettiamo però la grande difficoltà della nuova maniera perchè, a noi pare, che per piacere debba essere perfetta e che la mediocrità della esecuzione sia in essa meno tollerabile che in qualunque altra, almeno fino a che lo spirito che la informa entri negli artisti chiamati ad eseguirla. La difficoltà della composizione deriva da ciò che questa maniera compendia in sè e fonde tutte le altre che bisogna conoscere appieno, ed esige indubitabilmente più forza d’ingegno e maggior copia di dottrina e maggiore sperienza. La difficoltà della esecuzione esige più vasti studii negli artisti ed una certa tinta di coltura generale; esige che non calchi la scena chi non comprende, chi non sente quel che dice, e gabella la crassa ignoranza e l’asinità del core col dono immeritato di una bella voce. I cantanti tedeschi appunto perchè hanno educato il sentimento dalla coltura che in Germania è generale — benché concediamo che vi abbia la sna