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412 G A Z Z E T T A M U S I C A L E D I M I L A N 0 anch’esso convenzionale, questo far fremere in orchestra ciò che la parola parla, questo mutare la strumentazione in rivelatrice dell’intimo pensiero di chi canta, sì che mentre l’uno parla F altro piange o ride, o freme, o atterrisce, se pure non piangono, non ridono, non fremono l’uno e l’altro insieme, questo è effetto della calma superiore dell’artista che concepisce l’equilibrio e l’armonia fra tutte le parti che debbono cospirare ad uno stesso scopo, questo è il segno che egli già si sottopose e si assimilò la lunga elaborazione sua e del suo tempo e che la forma è sua schiava. Io non voglio qui noverare i moltissimi zampilli di freschissima lirica che si innalzano qua e là nell’opera, nè le quattro o cinque grandi sorgenti di melodia. Farei opera lunga e forse anche inutile, perchè iersera, seduto nella mia poltrona, sentivo a destra, a manca, dinanzi e alle spalle gli abbonati che sentivano per la seconda o terza volta il Don Carlo dive ogni istante: Senti qua che bellezza! Come è sublime questo! Quanto è caro! E udivo il pubblico che chiamò fuori il Verdi più volte che nella prima e nella seconda sera, applaudire a queste bellezze che cominciano ad essere gustate, applaudire davvero. Quando si applaudisce che il pezzo non è ancora finito, quando si chiama il maestro fuori a metà della scena, l’applauso non è di convenienza, non è fidinolo di stima; viene dal cuore. E poi. uscendo dal teatro, sentivo chi cantare «Carlo sommo imperatore,» chi» Mio fedel, fratello d’affetto, «chi «Dio che nell’alma infondere, «chi le famose battute, chi la marcia, chi la canzone del velo, chi il walzer, chi «No. tu sei la mia speranza» chi il coro dei frati al terzo atto, chi la romanza del baritono.. Eh e dicono che non ha canto abbastanza! L’Ebrea di Halèvy non fa lo stesso effetto a chi l’oda una volta sola? Voi credete svolto pienamente solo il tema dell’amicizia: gli altri vi paiono immaturi, oscuri, talvolta lunghi. Riudite il Don Carlo. Quando leggeste la prima volta i Sepolcri di Foscolo, ne capiste assai? E avete voi la potenza di comprendere le bellezze d’un inno di Pindaro dopo una prima lettura? A me, dopo averlo riudito, il Don Carlo ha fatto questa impressione: ch’esso svolga il tema dell’amicizia e che questo sia tutto il dramma musicale, ma che questo dramma si svolga in un ambiente e fra episodii parimente svolti con perfezione. La tirannide è un tema interamente svolto; ha il suo punto culminante nel monotono annuncio che Filippo fa sulla soglia del tempio: Nel posar sul mio capo la corona, Popolo, al ciel giurai, che a me la dona, Dar morte ai rei col fuoco e con Tacciar. Filippo in tutta l’opera non ha che questa voce senza sentimento; la ha, quando tutti lo circondano, chiedendo grazie per le Fiandre; quando parla col marchese di Posa; quando si vede tradito e dice adultera la moglie; quando delibera la morte del figliuolo; quando lo consegna in mano dell Inquisizione. Solo qualche istante si vede il barlume della commozione; ed essa risente sempre del carattere generale della parte; — nella romanza per esempio del 4.° atto. Talvolta il cuore del tiranno si muove, ma egli non ne dà segno; ce lo dice l’orchestra che. nel duetto tra Filippo e la moglie, accompagna con pianto di violini le parole di lui, che mostra essa 1 interna commozione del tiranno nel dialogo di lui col conte di Posa, e in quello con l’Inquisitore. Ora, in quest’assenza di sentimento è il sentimento della tirannide: e questo tema è perfettamente sviluppato. Trova un certo riscontro al carattere di Filippo, quello della regina. La passione disperata è, per natura sua chiusa, concentrata, agghiacciante. E voi non udrete mai uscire dalla bocca della regina quelle note che vengon fuori dalla Eboli; fin nell’ira hanno diversa faccia; ricordate ciò che la Eboli dice a Carlo ed al Posa, il modo come ella contraffa la regina, l’intemperanza dell’ira sua: e ponetela a raffronto di quel luogo dove la regina, saputo il tradimento della Eboli, le impone il bando o il chiostro e le soggiunge: Siate felice! E il tema dell’inquisizione anco mi pare pienamente sviluppato. Nasce in orchestra, quando i frati si avanzano prima deWauto-da-fè, si serba eguale a sè stesso nell’incitamento dei frati contro le Fiandre, nel canto del grande inquisitore, nella consegna di Carlo all’inquisizione: ed ha i suoi punti culminanti nella Voce angelica e nel coro finale d’anatema. Questo tema non si determina e non compie l’ufficio suo di atterrire col ripetere o svolgere una stessa frase, perchè ciò, familiarizzandovi con esso, velo renderebbe dilettoso ed amico, ma si afferma mostrando per più visi un aspetto stesso che in un sol punto genera il sereno della bellezza: e la bellezza splende sulla vittima, — la voce angelica. Vi direi mille altre cose: ma temo aver già annoiato voi e gli altri lettori. Ammaino dunque le vele. E, mentre le ammaino, vi dico che a parer mio quel confondersi delle proporzioni che circondano la delicatezza e la soavità dell’amicizia, quel giungere a voi non so quale senso di oscuro infinito tra il lugubre e il disperato, quell’accozzo d’indeterminato poetico e di determinato monotono vi dipinge la corte di Filippo, vi compie T ufficio del dramma, vi dà il colorito di tempo e di luogo. Senza quello, il dramma peccherebbe d’anacronismo. E, se volete ch’io vi dica, quali sono per me i difetti del Don Carlo, vi dirò, poiché siamo in fine, brevemente che, a mio avviso, son tre: E una bellezza complessa, quindi non facile ad essere ammirata, bellezza più poetica che musicale; ma, se è difetto che il dramma musicale sia vero dramma, bisogna decretare la morte del melodramma storico. Seconda pecca — dura cinque ore; e questo per un’opera da teatro è come l’adulterio pei mussulmani, il peccato inespiabile. Terza e sola pecca sostanziale mi pare sia questa: Il dramma, secondo me, finisce con la morte di Posa. Il dramma di Schiller è l’amore fra Don Carlo e la regina; il dramma di Verdi è l’amicizia fra Don Carlo e Posa; questo è il dramma musicale, questo è l’affetto che nella musica vola, come aquila, su tutti gli altri; questo solo è l’interesse drammatico; questa è la figura principale del quadro, nel quale tutto il resto è fondo, è colore, è tono, è accidente. Morto il marchese di Posa, udita l’ultima reminiscenza delle bellissime battute dell’amicizia, funebremente accompagnata da strumenti d’ottone, è morto il protagonista vero del dramma, cioè l’amicizia; il quinto atto non ha più ragione d’esistere; è un’altra cosa, staccata affatto dal dramma; è il racconto che si fa a chi, non contento d’aver saputa la fine d’un dramma o di un romanzo, come fanno le donne e i bambini, domandi: E poi? e degli altri che se n’è fatto? Con tutto ciò ch’io v’ho detto, non credo, ottimo amico, d’avervi persuaso. Lego ad un’altra udizione che farete del Don Carlo concertato dall’autore, il mandato di persuadervi. E addio. z. Ecco ora l’articolo della Gazzetta di Napoli: Abbiamo fatto promessa di ridire le impressioni prodotte in noi dal Don Carlo, ed eccoci a scioglierla. Le nostre impressioni si compendiano in una parola: entusiasmo; ognuno intenderà quindi come e quanto ei sia difficile l’esprimerle. L’entusiasmo si sente ma non si descrive e, quando si voglia pur tentarlo, si rimane sempre assai di sotto a ciò che si sente, poiché la parola è sempre impari alla commozione dell’animo, sempre troppo sbiadita per ritrarre le immagini che vi popolano la mente, sulla quale si riflette l’ombra dell’opera d’arte che vi ha affascinato. Diremo tuttavia alla meglio e senza, nessuna pretensione quel poco che potremo. A noi il Don Carlo è parso l’azione, la vita vera, il mondo reale, l’apoteosi dell’arte che, nella imitazione del vero, ha superato il vero abbellendolo, ha superato sè stessa divenendo razionale. Verdi del Don Carlo e Verdi del Rigoletto, della Traviata e del Ballo in Maschera, ma che infrena la fantasia, misura gli affetti, tempra i colori nei limiti del reale; che raccoglie tutta la potenza del suo genio e della sua dottrina, e crea in Italia il dramma musicale: il Don Carlo è la sintesi delle altre maniere da lui seguite con sì splendido risultato, è la più perfetta di tutte. Esaminate le sue opere, specialmente quelle che segnano il culmine di ciascuna fase del suo corso musicale, e vedrete una tendenza sempre progrediente a drammatizzare; uno sferzo perseverante di spastoiarsi dal convenzionalismo e di avvicinarsi al vero, al reale; un presentimento profondo ed indistinto, che va man mano determinandosi, del cammino fatale dell’arte italiana in una via nuova. L’arte è eterna, ma, se vuol essere umana, se vuol conservare il suo dominio nel mondo, dee secondare i tempi che traversa, le inclinazioni ed i costumi dei popoli, che si modificano sempre e si rinnovano. Da Paisiello a Rossini e da Rossini a Verdi, abbiamo avuto — generalmente parlando — ■ la lirica; il medio evo della musica, ei si permetta l’espressione. Era venuta l’ora della riforma. E impossibile forse determinare con precisione quale sia il legame tra l’arte e le altre discipline del mondo e il mondo stesso, ma è certo che un legame esiste; come esiste quello che imparenta l’una all’altra le facoltà umane, come esiste quel vincolo inesplicabile pel quale l’anima è avvinta al corpo ed ha commercio con esso: e poiché tutto s’è modificato, e il sentimento prevalente del tempo — quello diremmo che rappresenta l’istinto di ciascuna età — è l’azione, la realtà; l’arte — pena la decadenza, pena l’isolamento — dovea appressarsi a questa per salvare sè stessa, per salvare il genio dal bieco cinismo del positivismo. Ed ecco nasce il dramma musicale in Italia e, creato da Verdi, nasce gigante. Fu un tempo che noi italiani non si aveva teatro — dicevano — mentre in quella vece i nostri vicini della Senna si credevano, in questo, insuperabili; ma il vanto di tanti anni, la superiorità conquistata per lunghi studii proprii e per indolenza e pigrizia altrui cadde in un giorno; quel giorno che un uomo volle, potentemente volle esser poeta: Alfieri. Il medesimo è avvenuto ora nella musica: i tedeschi, che per l’indole loro primi si diedero al dramma e gli trovarono le forme, sono stati raggiunti col Don Carlo e con VAida, nel congegno, diremmo quasi, dell’opera drammatica, nello sviluppo dell’azione, ma lasciati sempre di tanto indietro di quanto erano già lontani da noi nella fecondità del genio che crea la melodia, indispensabile alla bellezza, all’efficacia dell’opera drammatica, non meno che a quella della lirica. E una falsa opinione, è un pregiudizio il credere che nella nuova maniera non entri la melodia; pregiudizio di chi, vedendo questa forma dell’arte prima adottata dai tedeschi nei quali è minima al paragone dei nostri la facoltà creatrice di melodia, argomenti che ora che noi ei siamo dati a seguir quella forma dobbiamo diventare aridi, evirarci, seppellire il genio. Lirica o drammatica, l’ispirazione è sempre quella; diversa la direzione, altre le proporzioni, altro il modo di manifestazione, — ma l’ispirazione è sempre la medesima. Il dramma di* Verdi è musica italiana, è una creazione puramente nazionale che non ha altro di comune con la straniera che il principio da cui muove, il quale, benché attuato prima da questo che da quello, non è nè di questo nè di quel paese, ma assoluto, universale come la verità, come il bello. 11 Don Carlo è pieno di melodia, ricca, svariatissima, conveniente, cioè, adatta al soggetto che informa, alle circostanze nelle quali si rivela; il Don Carlo anzi è tutto una melodia, tutto un canto, perchè vi cantano le voci,