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DON CARLO GAZZETTA MUSI Non potrei chiudere il presente sguardo sui fatti che più toccarono davvicino il Conservatorio senza ricordare un tema doloroso. senza consacrare una mesta ma dovuta commemorazione a un gruppo di colleglli che morte ei ha furati nel volgere di pochi mesi. Se da un canto il Conservatorio s’arricchì di due insigni nuovi docenti, l’Andreoli e il Guenzati, dall’altro ben tre furono gli eccellenti professori che nel corso di quest’anno lasciarono per sempre colleglli ed allievi amatissimi, e dai quali erano altrettanto riamati. Francesco Almasio, uomo probo, peritissimo suonatore d’Organo, si spegneva alla metà del novembre. Ai primi del dicembre lo seguiva Francesco Pizzi, anima integerrima, soavissimo flautista. Da pochi giorni poi ei abbandonò pure, Giano Brida, il più giovane di tutti i nostri professori. Nel Brida io perdetti un esimio allievo, un angelico amico; il Conservatorio un docente venerato per la scienza sua vasta, per T impareggiabile rettitudine d’animo. Fra gli altri distinti professori vi fu chi chiese d’esser collocato a riposo, chi sciaguratamente per ostinato malore non potè assistere nè punto nè poco i propri allievi, e chi anche noi potè in parte per onorifici incarichi affidatigli da tale a cui un rifiuto sarebbe riuscito, a dir poco, un’irriverenza, Il fatto irregolare, del resto, non si rinnoverà. Queste sventure, queste anormalità non ebbero però alcuna influenza rilevante nè sul regolare corso delle lezioni, nè sulla bontà dell’insegnamento. Volonterosi maestri, forniti di largo sapere, fra cui alcuni celeberrimi, coprirono con raro zelo le cattedre vacanti: nè i risultati ottenuti in codeste scuole speciali potevano riuscire più soddisfacenti. Rimarrebbe a dire della disciplina: ma è tutto detto in una parola. Per merito così del personale insegnante come del personale di sorveglianza, e direi per merito degli alunni stessi, non solo nulla ebbesi a lamentare da tale aspetto, ma l’accordo e il rispetto reciproco fra gli alunni, come la subordinazione verso i superiori lo furono quanto poteva desiderarsi. Uno o due fatti piuttosto gravi, puniti irrevocabilmente, nulla tolsero all’armonia dell’assieme, all’ordine che presiedette cosi nel quartiere dei maschi come in quello delle femmine: le cui scuole rispettive procedono parallelamente sì, ma affatto separate, salvo nelle rare circostanze di qualche musicale esigenza. Nè il regolare andamento si ottenne colle minaccie, coi castighi, colle pene, salvo rarissimi casi: bensì colla persuasione, col ragionamento, col non disvoler mai ciò che una volta s’è voluto. I nostri alunni sanno d’esser chiamati ad una nobile missione, a quella cioè d’essere i sacerdoti della più grande e più educatrice fra le arti. Sanno che dalla disciplina scaturisce l’ordine, dall’ordine l’accordo, dall’accordo de’diversi elementi la loro convergenza in un tutto armonico. Sanno che T armonia del congegno non è solamente simbolo, ma condizione di ogni armonia artistica, di quella dei suoni principalmente. Sanno insomma che ordine è condizione di bellezza, e la bellezza condizione di ogni educazione intellettuale, morale e civile. I nostri alunni queste cose le sanno. Laonde da una gioventù animosa che è penetrata della verità di codesti postulati è lecito sperar molto. Ed io mi riprometto infatti giorni migliori per l’arte: e nel paese nostro un più giusto apprezzamento dell’alto ufficio suo. A NAPOLI. A pubblicare tutti i giudizi! entusiastici che furono scritti dalla stampa di Napoli, ei mancherebbe lo spazio. Non sappiamo però resistere alla tentazione di riprodurre, aggiungendo un supplemento alla Gazzetta, due articoli critici che ei paiono dettati con molto acume: i nostri lettori non vi CALE DI MILANO 411 troveranno una lode banale, ma considerazioni che ne fanno la lettura interessante, Ciò che segue si legge nel Piccolo: Caro G. Z. Ho riascoltato iersera il Don Carlo per potermi persuadere che avevate ragione-, e, se me ne fossi persuaso, non risponderei alla vostra lettera pubblicata ieri, che dichiarandolo francamente. Ma qualche dissenso fra noi perdura ancora; nè svanirà, credo, che quando voi avrete riudito il Don Carlo. Colgo intanto con piacere quest’occasione per dire qualche altra mia idea su questo melodramma; e ciò ad evitare che il pubblico, se i giudizi del dilettante saranno diversi, confonda il gindizio interamente personale di lui, con. quello della direzione del Piccolo che gli lascia piena libertà di dire quel che vuole. D scorrendo con voi, che intendete l’arte come pochi la intendono, è inutile ch’io dica che cosa sia il dramma musicale. — Ma se questo è dramma, ed è bello, non è dunque bella la Norma e la Traviata? Tacete, non dite spropositi (rispondiamo insieme a tali interruttori), ogni cosa ha il suo stile e lo scrivere la storia con stile diverso da quello degli Inni di Manzoni non vuol dire che gli Inni debbano essere scritti con lo stile di Macaulay. Voi avete detto benissimo che il gran merito di Verdi consista nell’avere compreso il dramma musicale, nell’avere compenetrato in esso l’armonia dei tedeschi e la melodia degl’italiani. Il canto non è più solamente il peno ufficialmente annunciato, e che cammina co’ passi cadenzati. Come abbiamo sbandito dalle assemblee e dal foro l’orazione con voce grossa e gesti alla Camuccini, come abbiam sbandito dalla letteratura la rettorica e l’arcadia, e dalle scene del teatro di prosa la declamazione di Marchionni, di Monti, della Pieri, ecc., cosi il pezzo ufficiale ei ha seccato; il pezzo appaia per impeto dell’animo, inaspettato, naturalmente, non per convenzione; si svolga il tema, il concetto, non il pezzo con forme prestabilite. Tutto il nostro desideratum lo vediamo nel Don Carlo; ma esso, voi dite, è una elaborazione più che un lavoro; svolge completamente il tema dell’amicizia, non quello della tirannide di Filippo, nè delle lagrime di Fiandra, che, tormentosamente elaborati, restano immaturi, oscuri, talvolta troppo lunghi e ripetuti. E però, dite, il Don Carlo non diverrà popolare e non sarà pienamente accetto al pubblico. Scusate, a me pare che in quest’opera Verdi sia giunto ad impadronirsi della forma e farla cosa talmente sua, ch’ella talvolta ha tutta la forza e la vita del concetto, Dov’è l’elaborazione, ivi è sempre l’inceppato, il pauroso, il titubante, il rigido; nel lavoro che succede all’elaborazione già stata pienamente assimilata, avete invece la sicurezza, la forza, l’ardimento, l’eleganza. Tutta la poesia che precede e accompagna Dante è impastoiata; era elaborazione; Dante si libera; compie un lavoro. Fra gli epici, giunge ad essere elegante l’Ariosto, perchè il suo Orlando non è un’elaborazione; è il fatto dell’assimilazione d’un mondo; è il risultato e non il principio del lavoro. Le tragedie del Manzoni hanno i piè di piombo; la prudenza e la trepidazione le chiudono in un cerchio popiliano, perchè sono un’elaborazione; e là dov’egli è sicuro, dove il verso erompe da una coscienza compiuta, dove la forma non gli fa paura, là dove Manzoni riabbraccia la lirica, nei Cori, ecco una sicurezza ed un ardimento nuovi, ecco l’eleganza. Quando T elaborazione è compiuta, le incertezze allora finiscono, la rigidità scomparisce, spunta il fiore dell’eleganza: l’artista non ha paura della forma, scherza con essa, o ne usa senza sforzo, senza travaglio, senza esagerazione. Così la donna è impacciata, quando non è usata a portar belle e ricche vesti; è sicura di sè, svelta, padrona d’egni suo movimento quando è usata alla veste che porta ed allora può essere elegante. L’eleganza è quindi il segno che mostra finita l’elaborazione e cominciato il regno dei lavori compiuti di arte. Ora io non oso supporre che voi mi neghiate l’eleganza del Don Carlo. Verdi lo vedete in quest’opera così padrone della tecnica, che egli affronta e vince le più grandi difficoltà d’armonia e fa parerle facili con quella serenità’ che è scolpita in Apollo saettante il serpente Pitone. Non v’è funzione di strumento e di voce, della quale egli non abbia piena coscienza e di tutta si avvale con somma naturalezza, e voi uon ve ne accorgete, dove invece la musica tedesca spesso ve ne fa accorgere. Tutto qui è semplice così che la parte meno intelligente del pubblico non si avvede punto che Verdi scherza ora coi terzini, ora colle trombe, ora col violoncello, ora con tutta l’orchestra come se fosse con un solo strumento. Ebbene, questa è l’eleganza; questo è il segno che l’elaborazione era già finita. Verdi quando scrisse il Boccanegra, quando scrisse il Ballo in Maschera non avrebbe osato quello che ha osato nel Don Carlo. Nel Boccanegra lo tentò, fece i primi passi, e vi si vede la, rigidezza, la trepidazione, l’incertezza. Nel Ballo in Maschera tenne in sè la elaborazione e si affidò più alla sua prima maniera çhe sfugge le difficoltà tecniche, che alla seconda rivelatrice dell’elaborazione faticosa. Ora ecco la eleganza, ecco dunque il lavoro. E lavoro tedesco, mi dice qualcuno. Ma direte voi brutta una bella donna se tedesca? Sia pure scandinava; se bella, è fatta per essere amata. E che s’intende poi per musica tedesca? Quella che è povera di canto, dicono. Eh ma il Don Carlo sovrabbonda di canto; non è canto con inquadratura di chitarra ma è canto vero, canto di tutti, delle voci umane, del violoncello, dell’oboe, del violino, del flauto, del fagotto, della tromba. Cantano tutti! Non lo sentite in un punto là dove comincia il ballo, il canto dei contro-bassi? Cantano tutti qui, perfino la gran cassa ed i piattini. E questo non far servire l’orchestra di accompagnamento periodico e convenzionale ad un canto