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402 GAZZETTA MUSICALE DI MILANO comuni, ma come un gigante lotta con un pigmeo che gli si attacca alle gambe, rimanendosi incrollabile nella sua grandezza. I due pezzi bellissimi sono un duetto fra Renzo e Lucia, di cui l’esecuzione tradì in parte l’effetto, ma che parve a me ed a tutti ispirato, affettuoso. originale e gentilissimo, ed un pezzo concertato di forme veramente grandiose; T orchestra si sposa colle voci in maniera da fare un tutto d’effetto irresistibile; il pubblico ne chiese la replica che fu consentita. Nel terzo atto è la pagina più grandiosa dello spartito: uno stupendo duetto tra Lucia e la Signora di Monza, nel giardino del convento, con coro religioso interno e coro dei bravi che stanno dietro i cancelli. Qui appare l’ingegno veramente straordinario del maestro Ponchielli, il quale mostra una valentia che è di pochissimi nel trattare le parti d’un pezzo concertato. Egli ha il raro privilegio di non trovarsi mai imbarazzato per l’abbondanza; più gli date materiali e più grandioso vi fa T edifìzio; nell’architettura musicale (mi si permetta la frase) non so se fra i giovani maestri vi sian molti che lo eguaglino, certo nessuno che lo superi. Questo pezzo è stupendo e d’un effetto immediato, e anche di questo il pubblico ghiotto ne volle due volte. Subito dopo è un lungo preludio per violino solo; il violinista a cui era affidata l’esecuzione ei fè provare tutte le torture che può dare un violino, ed io, ingenuo, non credeva che fossero tante. Se di quel migliaio di note ne diede quattro in tono giusto fu un miracolo; evidentemente il violino era scordato, ma le colpe dei violini, si sa, le scontano i violinisti. La scena fra Nibbio e Lucia che succede al preludio è poco caratteristica; la preghiera disperata di Lucia non ha nulla del disperato e pochissimo della preghiera; è quasi allegra. Bello di fattura è anche il finale di quest’atto. Nel quarto è abbastanza grazioso, sebbene non originalissimo, il brindisi di Don Rodrigo; di tetra efficacia la scena di Rodrigo colto dalla peste; l’effetto qui è ottenuto con molta semplicità di mezzi, e l’insistente, uguale e monotono ripetersi di due o tre note in orchestra, dà un’impronta sinistra singolarissima. Succede un altro preludio, e questo è così bene eseguito ed è proprio così bello, cosi bello, che il pubblico vuole udirlo ancora. La musica dice la desolazione della peste, lo sbigottimento dei sopravvissuti, la mesta rassegnazione di tante madri che han perduto i figli e i gemiti di tanti figli che non han più madre; dice tutto questo quella musica, assai meglio che non saprei ripeterlo io. Il coro che succede è bello; bella è anche la preghiera e la romanza del tenore, e tutto è bello fino al terzetto finale in cui è una parte a voci sole bellissima, e l’opera termina degna delle molte bellezze che contiene. Sommando i pregi ed i difetti di questo spartito (che mi pare destinato a bella fortuna) si trova che i primi non solo sono in maggior numero, ina di tal natura da far giustamente guardare con orgogliosa soddisfazione all’avvenire del suo autore. Nell’interpretazione fu ottima, assolutamente ottima, la signora Teresina Brambilla, giovine artista che canta con una voce soavissima, con buon metodo e che sa stare davvero nei panni che indossa. L’abbiamo applaudita come Regina, come Zeriina, ed ora e più l’applaudiamo come Lucia. Benissimo il basso Junca, un artistone, un Padre Cristoforo nato colla tonaca e col crocifisso; bene anche la signora Barlani-Dini nella piccola parte di Signora di Monza. Il baritono Brogi sta magnificamente in iscena, canta con garbo d’artista ed ha voce non molto voluminosa, ma simpatica; ebbe però qualche momento di debolezza, pagato ad usura, diciamolo subito, dalla valentia dimostrata nei punti drammatici. Il tenore Fabbri canta bene quando canta, ma molte volte invece di cantare starnuta; nei primi atti, o fosse timore o fosse indisposizione, il timbro nasale della sua voce era fatto più ingrato; ma nel quarto, alla romanza, riuscì a farsi applaudire dal pubblico, certo non troppo benevolo per lui. L’orchestra nell’insieme benissimo ed i cori anche. S. FARINA. Riportiamo i giudizii della stampa intorno all’esito del capolavoro di Verdi. Dal Roma: Scriviamo con l’animo commosso per una musica sorprendente. Non è il Verdi del Nabucco, non è quello del Ri goletto: è l’autore del Ballo in Maschera. Ei si determina, e, diremo, si compie nel Don Carlo. Notevolissimo è lo svolgimento artistico avvenuto nell’animo d’un uomo oggiinai in Italia solo rappresentante d’una scuola, onde la tedesca e la francese derivarono come robusti rami da quercia gigantesca e secolare. Verdi non ha riscontro che in Rossini. Unicamente a questi due era serbato di percorrere tre stadii nell’arte: ed entrambi rimarranno glorie solitarie e distinte fra i loro contemporanei. Eccoli, i due soli intorno a cui s’aggirarono e s’aggirano le minori stelle! - Quei che tennero dietro al grande di Pesaro nella nuova e splendida via che si aperse, Donizetti, Mercadante, Pacini ed altri del bel numero, dopo le prime imitazioni, assunsero tutti un carattere proprio e spiccato, una personalità, uno stile. Non accenniamo al Bellini; perchè costui non segui Torme di nessuno: era lo spirito di Pergolese che agitavasi in lui. era Paiesello della Nina pazza per amore che gl’inspirò la Sonnambula. Egli fu il poeta del dolore, diede l’elegia musicale e divenne insuperabile. Ma il Rossini non tardò guari a mettere in scompiglio i suoi seguaci. Ei da principio lasciavasi intravedere, a poco a poco superando gli antichi; poi ruppe l’argine ed affermò la potenza originale della sua fantasia; col Guglielmo Teli finalmente superò sè medesimo, vide l’arte al di fuori, fece il dramma. E così Verdi. Ei tenne a modello il Donizetti, che compose la Favorita,à. Lucrezia, il Don Sebastiano e che non descrisse tutta l’orbita sua. L’imitò Verdi: ma ben presto libero campo concedeva al suo largo imaginare, alla ispirazione profonda, e sarem per dire riflessa. Nè fu pago: ebbe miglior coscienza di sè, de’suoi tempi. L’intelletto infrenò la fantasia. 11 maestro di Busseto, come quel di Pesaro, la diresse ad interpretare e ad esprimere il fuori di sè. Invece di dar lo specchio dell’anima sua, volle dar quello del mondo; e compose il Don Carlo. Opera titanica è questa; v’è storia da tratteggiare, vi son caratteri da dipingere, passioni da rendere, contrasti da fare intendere, uomini p popolo da far movere e vivere in un dato ambiente, in date circostanze di tempo e di luogo. Vi è riuscito Giuseppe Verdi? Affrettiamoci a dire che sì. Quivi tutto è vivente, tutto palpita, tutto ricerca le più intime latebre della mente e del cuore. 1er sera ne parve d’udir la prima volta la stupenda creazione d’unitaliano che vinse lo Schiller come la musica vince la poesia. Il tedesco fece un poema drammatico, il Verdi un poema musicale. Il pubblico entusiasta, entusiasta in tutta la forza della parola, chiamò ventisei volte al proscenio l’illustre maestro. Tre volte volle udire ripetere il celebre crescendo dell’orchestra nell’atto terzo, quando Carlo e Rodrigo si allontanano nella scambievole fiducia d’un’amicizia senza pari.