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338 GAZZETTA MUSICALE DI MILANO nerli insieme, giacché d’accordo non è possibile, bisogna legar l’asino dove vogliono, e pagarli come se fossero tanti concertisti. 1 L’opera finalmente, tira, tira, Va in iscena; or sì ch’è fatta la frittata, Chi ha la tosse, chi il capo che gli gira; Chi la piglia a due soldi la calata. Quasi quasi si perdonerebbe anco a uno ’di questi impresari, quando si pensa ai sudori di sangue che costa il metter su uno spartito prima che si possa alzare il sipario. Siamo alla prima sera dell’opera. «Ora iiicomincian le dolenti note.» ■ I Un bailamme, uno stonìo, un casa del diavolo. Aspettate; Roma non fu fatta in un giorno. Sì, aspettiamo; ma questa ho paura che sia una certa Roma da non venirne mai a capo. Povero Donizetti! povero Bellini! Parce sepedto! Sorgono i partiti. Chi tiene dal tenore, chi dal basso, e chi dalla prima donna. C’è chi tiene dalla seconda, e c’è fino un partito per i coristi. Gli odii nascosti, le tacite invidie nate per tutt’altra cagione e covate lungamente nel cuore scoppiano in questa occasione, e il teatro diventa il torneo di tutti i paladini del ripicco e del pettegolezzo. Già in tutto e per tutto le cause che si fanno apparire non sono altro che pretesti; e le vere cause vattele a pescare. Qui si potrebbe dare un’idea delle chiacchere che si fanno, dei puntigli che nascono, delle animosità che ripullulano; ma fortunatamente la ristrettezza del giornale non lo permette, ed io taglio corto, incoraggito dall’esempio quotidiano di storici più serii di me, i quali saltano i fatti a piè pari anco quando la pagina è larga; solamente dirò che prima che il giuoco finisca va tutto in iscompiglio. S’attizzano, si scanagliano, qualche volta si legnano; eia maschera? e il deputato d’ispezione? Oh! velo dirò io: la maschera, avvezza ad andare a tetto come i polli, è laggiù nel forno appoggiata al muro che ciondola e russa; il deputato d’ispezione, se qualcuno va a ricorrere, dice: Io? io per tornare a casa ei ho tre cantonate da passare; per me, dieno anche fuoco al teatro.... se non avete famiglia voi, l’ho io, sapete?... E cosi via discorrendo. Ed è bizzarro udire alcuni gridare tutto il rimanente dell’anno: Ecco qui, in questo paesaccio non c’è mai nulla, non si sa dove consumare la sera; dalle ventiquattro in là, uno da una parte e uno dall’altra, e chi s’è visto s’è visto. C’è quel po’ di teatruccio, ma ei ballano i topi! L’accademia ei può mettere appigionasi per seccare il fieno. S’apre il teatrino tanto desiderato; che direste voi se questi brontoloni, questi del bene e del diletto pubblico, fossero per l’appunto la pietra dello scandalo? Mi rimorderebbe la coscienza se tralasciassi di dire che fra tante cose, fra tante persone ridicole, i più ridicoli siamo noi, noi dottorucci e avvocatucci, che per avere assaggiata la capitale, per esser tornati a casa con un giubbino del Massini (1), ei crediamo una gran cosa e ei piantamo ritti, incorvattati in mezzo alle corsie, o nei palchi a tentennare la testa come il sindaco del villaggio. Gonfiati di boria per la nostra eleganza anfibia, giacché:: i (Quando in origine No’ siam tarpani Non c’è battesimo Che ei risani). Col biasimar tutto, col mostrarsi scontenti di tutto, crediamo d’acquistarci nomèa d’uomini di mondo, d’uomini che hanno visto gran cose, che hanno fatto il palato a tutto ciò che vi è di più squisito. Che se nei nostri nidi nativi ei fossero di quegli occhialetti che vende Torre o Prinoth (2), e che in fatto di bon ton veggono il pelo dell’uovo, come riconoscerebbero subito in noi il Semibovemque virum. Semivirumque bovem. Fortuna che l’abbiamo a fare con certi cannocchiali torbi, della famiglia di quello del Baccelli (1), passati di padre in figlio fino alla quarta generazione! Con questi non si può scorgere se la vernice abbia ricoperto la buccia in modo che chi ei palpeggia non rischi di sbucciarsi le mani. Ma tiriamo di lungo, molto più che non è questo il solo caso nel quale una giubba del Massini dà la facoltà di dire e di fare degli spropositi. Nel mezzo a queste belle scene, in questa dolcissima armonia si chiude il teatro. Mi pareva mille anni! dicono gli scontenti; avrebbero potuto fare qualche serata sciolta, dicono gli abbonati che non hanno quei pochi piccioli; tanto è vero che l’opinione serve alle passioni e più che alle passioni alla tasca. La compagnia ha più debiti della lepre; i coristi, orchestra, il lumaio et reliqua vogliono essere pagati, e l’impresario grida di essere stato assassinato. Ait latro, ad latronem. Ed eccoti saltar fuori cambiali, pagherò e tutte le parti strumentali del debito e della miseria. Il ciabattino cita in tribunale la prima donna e le fa riconoscere in piede i sopratacchi rimessi e non pagati; il sarto fa lo stesso al tenore a conto di toppe e di rabeschi; il basso e la seconda donna hanno trovato chi paga per loro. Ma il fornaio porta su a palazzo uno stecco lungo che non finisce mai con duecentomila tacche, geroglifico significante non tanto la poca esattezza, quanto il buon appetito della compagnia. Come anderà a finire? Una mattina, che è che non è, non si trova più nessuno: l’impresario et cederà ammalia hanno battuto il taccone, antica maniera di pagare i debitiQuesta è la storia. Ora le conseguenze tiratele voi. 16 settembre 1840. O. OrilXSti. Il Pungolo ha letto male ciò che abbiamo scritto nel passato numero, e non ne ha capito un’acca- Ha fatto una strana confusione, ha preso per sè ciò che era diretto all’impresa della Scala, e ei risponde tirando giù i Santi dalle nicchie e citando i versetti del Decalogo. Gli domandiamo perdono in ginocchio per aver creduto un momento di potergli dare l’onesto consiglio di guardarsi dalle voci che corrono; dovevamo sapere che i consigli non si accettano mai, e peggio dagli amici. Affermiamo però ancora che colle notizie sparse intorno al repertorio, egli ha dato ragione a credere a chi non gli vuol bene che si facesse (non inscientemente come ha scritto la nostra Gazzetta) a servire gli interessi dell’impresa della Scala contro l’Editore degli spartiti promessi. Nè la lancia che ora spezza a favore delle Imprese sagrifìcate è l’argomento migliore per cancellare quella prima impressione. Non ei offende del resto il faceto battesimo di adoratori dei santi Verdi e Gounod. Se il Pungolo tiene a chiamare religione ciò che per noi non è che rispetto, si accomodi; saremo bacchettoni, ma non saremo mai ridicoli... finché i nostri santi si chiameranno Verdi e Gounod. Quanto all’argomento ad hominem con cui gli piace rinforzare il suo dire, cioè il dispotismo degli editori, rispondiamo che vi è un dispotismo più dannoso, ed è quello della stampa che vuol trattare i negozi dei privati. Finora Milano non aveva esempio di siffatta missione del giornalismo. Gli imitatori non mancheranno, tanto più che questa specie di dispotismo ha il vantaggio sulle altre che manca di senso comune. Non ne diciamo di più perchè il pubblico, quel pubblico dei cui interessi si fa cosi strenuo avvocato il Pungolo, sa benissimo che deve ai dispotismi degli Editori i migliori spettacoli del nostro massimo teatro, L’Africana, cioè, il Don Carlo, La forza del destino e l’Aida! La Direzione. Definizioni musicali. Cantante. - Un debitore, che non salda sempre le sue note. Ghironda. dicità. Gran cassa. tuta, allora non La linea di congiunzione tra la musica e la men- L’opposto di un’armata; quando questa è batè battuta, e viceversa. (1) Rinomato sarto fiorentino. (2) Ottici fiorentini. ti) Astronomo fiorentino, compilatore di lunarj.