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326 GAZZETTA MUSICALE DI MILANO VIENNA, 22 settembre. Le Corsaire noir, nuova operetta di Offenbach. Questa volta mo’ l’amico Offenbach si scavò da sè medesimo tre buoni piedi di fossa, in cui sotterrare il risuono onde echeggia il suo nome nel mondo delle comiche e musicali freddure. Venne tra noi in compagnia delle nove Muse, in forma di nove appendicisti o qualche cosa di simile, da Parigi, latore d’uno spartito nuovo di zecca, fatturato proprio per noi; vedete che ’ onore! e nel nostro suburbano della Wieden lo fè mettere iersera in scena con tutto lo sfarzo abbagliante i sensi, affascinante la fantasia di coloro, che di simili artifizi amano accompagnate le delinquescenze musicali. Venne contento di noi e ei portò il Corsaire noir, operetta in tre atti, libretto e musica, tutta roba sua. Fin qui il maestro colognese segui classiche tradizioni; anche del Mozart si racconta, che, lietissimo del successo riportato col suo Figaro a Praga, abbia detto: l’anno venturo ritornerò con uno spartito proprio per voi; e scrisse il Don Giovanni; e del Wagner si sa, che i suoi testi se li verseggia egli medesimo. L’Offenbach non volle essere da meno, e memore delle accoglienze avute, promise in cuor suo un’operetta ai buoni Viennesi. Ce l’annunzio di lunga mano, ce la portò, anzi ne ha in petto un’altra per il suburbano teatro Cari, pure in argomento di gratitudine per le accoglienze avute; ed ambedue, versi e musica, fattura sua, primizie interessanti sottratte ai suoi ammiratori parigini. Il Corsaire noir! Se a questo titolo v’immaginaste qualche cosa di romantico, di tragico, qualche rifrittura dello Shakspeare o del Byron, come uragani stridenti, battaglie navali, ratti di vergini o peggio, v’ingannereste a partito. L’Offenbach non è uomo da cercar ispirazioni fra tante diavolerie; avvezzo alle più eleganti brigate, attorniato da scherzi ed amori, cascante per spirito e lenocinii, non è uomo, vi dico, da temprarsi a simili robustezze. Giudicatene voi dal succinto ^he vi fo dell’ultima sua composizione. Un signor Lambrequin, possidente di Marsiglia, sordo e per giunta dilettante di musica, già per ventura sua tradito dalla sua bella che intanto si appigliò ad un signor Mistral, è divorato dalla smania di vendicare l’oltraggio onde ha trafitto il suo cuore. La traditrice ebbe regalato al marito due maschiotti che rispondono ai nomi di Polidor e di Leon e che fatti giovincelli hanno l’ardire d’innamorarsi delle due nipoti del celibatario ardente di vendetta e sordo, dico innamorarsi delle nipoti Marinette e Reine, e quello che più rileva, ripetutamente sono dal vecchio a domandargliene la mano. Figuratevi le escandescenze di costui! Ma che non può amore e amore corrisposto? I due giovani si sommettono a tante metamorfosi quante ne può subire un pubblico paziente e favorevolmente prevenuto, durante tutt’una sera. Compariscono ora da rivenduglioli orientali, ora da pifferaci italiani, ora da cantanti dell’opera, ora da corsari a dar l’assalto a quella vecchia rovina, pur da indurla alla resa ed abbandonare al loro piacere i due rivali alleati del vecchio, uno speziale Antonier e un comandante di gendarmeria Bombarso, sposi preferiti per le due nipoti. La rovina non cade ancora; ma cadrà per un colpo di mano che è favoreggiato dal vecchio medesimo, dilettante di musica. Gli viene in pensiero di far rappresentare in casa sua l’opera dell’Hérold, Zampa; la sua cuoca Susanne deve assumere la parte principale; ma una delle nipoti, furbacchiona anzi che no, tanto congiura e intriga che quella parte appunto viene addossata al suo Polidor, il quale traducendola dalla finzione in realtà, tramutasi in corsaro effettivo, tramuta pure il salone delle rappresentazioni in una nave di pirati, v’imprigiona il vecchio rimbambito ed i suoi amici e minacciando morte, eccidio, mal di mare tanto fa, che gli strappa di bocca il sospirato consentimento alle nozze, per sè e pel fratello. Tutto questo pasticcio è troppo per una sera. Le incocrenze si succedono allegramente alle incoerenze; le inverisimiglianze alle inverisimiglianze; le scene, i quadri a scene e quadri senza ragionevole legame fra loro; fantasia e realtà, storia e favola si avvicendano senza che l’una si accordi coll’altra in un complesso armonico che risponda all’azione. L’epoca dovrebb’essere quella del Direttorio, così cel dice il vestiario. Dov’era allora l’autore dell’opera Zampa? Donde seppe il vecchio dilettante di musica che esistessero Mozart, Beethoven delle cui sonate si mostra cotanto entusiasta? Persino il telegrafo, i cartellini di corrispondenza postale, le stazioni ferroviarie ed altri argomenti dalla vita odierna vi hanno parte, senza che il poeta abbia pensato di qual crimine ei si rendeva colpevole dinanzi al foro dell’intelligenza de’suoi spettatori. Dire degli scherzi stantii, degli equivoci procaci, delle scurrilità che vogliono essere tratti di spirito, sarebbe non finirla si presto: certo è che col progredire dell’azione, diminuiva il plauso, finché si perdette nelle regioni superiori e quivi ammutolì. Il merito più segnalato, se l’hanno, a non dubitare, il macchinista, l’attrezzista, il sarto, le maglie assettate, la luce elettrica, gli scenari. E la musica? Dio buono! La musica, se la tornasse ancora in terra e prendesse l’umana forma favoleggiata dagli antichi, dovrebbe vivamente protestare, al vedersi così prostituita in mezzo ad una società equivoca, ridotta non in un tempio dell’arte, ma in quello di Augia, supplicante Ercole che non tardi la sua impresa purificatrice. Guai a quella società, il cui musicale nutrimento quotidiano fosse quello ammanitole dal signor Offenbach! Guai al pubblico che si dilettasse di queste quisquiglie, tutt’al più confacenti ad una taverna, assolutamente indegne d’un teatro che aspira al titolo di tempio dedicato all’arte! E difficile incontrare mai cosa più povera di quest’operetta; sto per credere che il maestro speculò più sullo spettacolo abbagliante per luce e colori, sulla triviale sensualità, sulle grasse risate ad ogni scherzo anche insipido e frusto, che sull’effetto della sua composizione musicale. Moltissimo in fatti fu riso; ma al maestro non dovrà essere sfuggito, che il riso non fu provocato dalle sue note, nè dalla sua istrumentazione, sibbene da ogni travestimento delle sue comparse, da ogni trasformazione de’suoi attori, da situazioni stiracchiate per vantaggio di scena, da atteggiamenti e pose alle quali ei vanno abituando i capuani della Senna. Quando per esempio gii spasimi del mal di mare destano l’ilarità, non è già la musica che possa prestarsi a siffatta deiezione; è la smorfia dell’attore che stimola i muscoli rispettivi. E cosi via, colle movenze delle polke, colle marcie a ritroso, colle palle di gomma elastica, che dovendo essere palle di cannone rimbalzano sul palco scenico fra le risate del rispettabile pubblico. Dopo aver subita un’ouverture, che dà la quintessenza dello spettacolo e fra le altre ingredienze fa assaporare anche il piacere d’una tempesta in mare, una serie di ritmi ballabili, di melodie sciupate, di reminiscenze e di motivi che si riproducono fino alla noia e che caratterizzano la fretta del lavoro e la povertà dell’immaginazione ei passano dinanzi, senza pur destare la nostra attenzione, perchè costantemente modulati sui due quarti, cosi che quando finalmente sentiamo avvicinarsi un ritmo a tre quarti, i nervi si scuotono per sorpresa. Sciaguratamente la sorpresa non dura, perchè invece di una inspirazione novella, si para davanti un vuoto e monotono valzer, il quale continua finché il tempo di polka sottentra nel dominio della scena. E sì che il maestro avrebbe potuto fare di meglio. Ce ne assicura quella marcia nuziale sulla fine del prim’atto, dove un assolo di violino, seguito dal basso della tromba, e poi accompagnato dal clarinetto e dal fagotto, e dall’assieme dell’orchestra è d’un umore e d’un effetto irresistibile. Peccato, che quello scherzo si riproduca troppo spesso, per meritare la lode. C’è inoltre un brindisi, pieno di vivacità e di brio, messo in bocca al falso corsaro nel second’atto, che è il lavoro più squisito e meglio condotto di tutta l’operetta. Non mi chiedete della parodia dei pifferar!, dello strazio fatto per cura del sordo dilettante sui pezzi musicali di cui tenta la prova in compagnia dei suoi complici; se l’umore si guadagna con simili storpiamenti, se la piccanteria può permettersi simili straziatore d’orecchi, allora non c’è più limite all’abuso, non c’è più freno alla licenza, ed il riso del pubblico è sentenza di riprovazione contro colui