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GAZZETTA M U S I C A L E D I M I L A N 0 307 olii lia il maggior interesse ad aprire il nuovo teatro è appunto l’impresa, la quale se ha menato il can per l’aia l’ha fatto colle intenzioni più oneste, pigliando il suo desiderio e la sua buona volontà per un’onnipotenza che non era nelle sue mani. Oggi — siano lodati i cieli! — il nuovo teatro si apre, e la quistione del battesimo è risoluta. Gl’impresarii erano in grave imbarazzo per la scelta di un nome grazioso. Teatro Bonaparte non diceva nulla, Teatro Nuovo non diceva abbastanza, Teatro al Foro avrebbe fatto fino alla consumazione de’ secoli la fortuna degli Airaghi delle future generazioni; Teatro nuovo al Foro Bonaparte diceva evidentemente troppo; rimaneva il battesimo proposto di Donizetti, ma sarebbe stato far troppe cose bene; dunque? dunque il teatro s’intitolerà Dal Verme, dal nome del proprietario. M’inchino alla sapienza dei padrini. ed arrossisco per me e per i miei confratelli che non ei avevamo pensato. L’apertura di questo teatro il quale, non ostante la melanconia del battesimo, è assolutamente bello, avviene cogli Ugonotti’, l’ingresso per questa sera costa cinque lire, nè più nè meno; i palchi si sono pagati a prezzi favolosi, e il vasto ricinto non basterà a contenere la folla. L’impresa se lo merita, perchè vuol fare le cose bene ed ha scritturato valentissimi artisti, fra i quali vo’ solo citare i nomi delle signore Galletti-Gianoli, Pozzoni Anastasi, Barlani-Dini, dei tenori Tiberini ed Anastasi, e del baritono Giraldoni. Sono promesse, oltre gli Ugonotti, le seguenti opere: Favorita. Corinna del maestro Rebora, i Promessi Sposi del Ponchielli, Le allegre comari di Vindsor di Nicolai, e due balli, il primo dei quali, del coreografo Magni, s’intitola: Il sogno d’un visir. Le rappresentazioni del Freischütz alla Scala procedono molto regolarmente; la musica è sempre meglio gustata, ma il caldo fa la guerra al trionfo pecuniario, e non ei è pericolo di vedere la folla aspettare ansiosamente l’apertura della porta per rovesciarsi i n teatro come una di quelle benefiche valanghe umane che popolano i sogni d’ogni onesto impresario. No, non ei è proprio pericolo, ed è un peccato perchè anche l’esecuzione migliora, e la Mariani e Maini fanno sempre miracoli. Oh! se -il termometro volesse umiliarsi un pochino! Intanto l’impresa non sta colle mani alla cintola, ed ha scritturato due nuovi tenori per la stagione di carnevale-quaresima; essi sono i signori Pasquale Brignoli e Michelangelo Bonfratelli. Alla mezza dozzina di opere nuove cento volte annunziate per quella stagione, bisogna aggiungere una, Viola, del bravo maestro Perelli, il quale ebbe la ventura di trovare il talismano che apre le porte del palcoscenico, in forma di 8 biglietti da mille della Banca Nazionale. Il maliardo che ha fornito al Perelli lo irresistibile argomento è il barone Eugenio Cantoni. Al Carcano si tira innanzi bene, in virtù di Bottero primo ed unico, che regna e governa sopra un popolo di ammiratori. Ci duole però che quel teatro non possa mantenere la promessa di ridare meglio eseguita la Follia a, Roma del Ricci, non essendo riuscito all’impresa di migliorare T orchestra. Vi è chi dice che avremo invece Gli Avventurieri del Braga; e lo speriamo anche noi. La compagnia che recita al teatro S. Radegonda, fa buoni negozi; ha buoni artisti e repertorio ricco di novità. Al teatro Re di porta Ticinese, ei furono alcune rappresentazioni melanconiche del Don Pasquale; non già che l’opera non fosse ben eseguita, ma il pubblico intervenne cosi scarso, cosi scarso, che tanto varrebbe cantare a porte chiuse. Gli è ciò che intendono di fare, o press’a poco, gli artisti dopo essere stati abbandonati dall’impresario, ed aver tentato senza miglior fortuna la speculazione per conto proprio. Potesse una parola di lode confortare quei quattro disgraziati, ed io direi che la signorina Lamberti è un’esordiente che ha vocina dolcissima ed eccellente metodo di canto, che il tenore Gropello canta con garbo e bella voce, che il buffo Sabbatini è uno dei pochi buffi composti e diligenti, e che il baritono Viannini sta bene sulla scena ed ha momenti assai buoni. Ma potrà una parola di lode confortare quei quattro disgraziati? p. p. La contessa seguiva, cupa è ravvolta, nel suo ampio velo nero, la funerea bara. La sventurata figlia del grande Rubens aveva per unico accompagnamento all’ultima dimora la sua povera e desolata madre! XVI. LÀ DOPPIA TOMBA. Non mi fermerò a parlare del basso favoritismo che continuò a godere per molti anni ancora il conte-duca sovra il debole e volubile cuore di Filippo IV. Neppure dirò delle glorie di Rubens, il quale, essendogli morta alcuni anni dopo la sua prima moglie, si sposò con Elena Froment, celebre per la sua bellezza. Come neanche narrerò la morte tragica di Giovanni de Pareja, accaduta molto tempo dopo, per salvare da una pugnalata il marito della figlia di Velâzquez, il paesista Giovanni del Mazo. Tutti questi fatti sono tanto palesi, che non c’è quasi persona che non li conosca. Voglio condurre il lettore, un anno dopo la morte di Anna, al pittoresco cimitero di Gand, e dietro il grandioso sepolcro dei conti di Egmont. Colà avvi una tomba con due lapidi; una di marmo bianco; l’altra di diaspro nero. Ambedue hanno scritto in cima il semplice nome di Anna. La bianca è circondata da rosai pure bianchi: un albero di arancio le dà fiori ed ombra, e alcuni vasi di porfido, pieni di gelsomini, attorniano la nivea lapide. Sovr’essi posansi alcune farfalle, e gli augelletti gareggiano cantando sull’arancio e sui roseti come per salutare gli ultimi giorni dell’estate. La pietra nera è circondata da alloro e le dà ombra un cipresso, il cui tronco è circondato dall’edera. Quell’affettuosa erbetta ama, pare, consolare quella oscura tomba colle sue umili foglie e coi suoi fiori celesti. Era il tramonto di un giorno di settembre. Un cavaliere, ancora giovane e rigorosamente vestito di lutto, giunse accompagnato da un bel giovinetto che mostrava diciasette anni, e venti meno del padre; giacché non era a dubitarsi che il cavaliere che l’accompagnava fosse il padre suo. Aveva, com’esso, occhi neri e belli, ricchi e neri i capegli e bruno il volto. Deposero una corona bianca di rose, che il giovinetto portava tra mano, sopra il monumento, e ambedue pregarono lungo tempo, baciando poscia il freddo marmo. — Povera Duyweque mia! esclamò il giovane con fervore; quanto ti amavo!... E due lagrime irrigarono le sue gote. — Tua sorella morì perchè le mancò sua madre che vegliasse alla sua delicata complessione, disse malinconicamente il cavaliere. — La mamma mia morì prima di essa, babbo? — Molto prima, figlio mio! — Babbo, ma se io credo d’averla veduta due mesi or sono un mattino nello svegliarmi... Sì!... Sì!... mi abbracciava piangendo!... — Sognavi, caro mio!.,, tua madre morì quando tu non avevi ancora un anno. — Può darsi che sognassi, soggiunse il giovinetto già quasi convinto; ma è certo, babbo, che scomparve come un sogno.