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274 GAZZETTA MUSICALE DI MILANO i silfi invece dei pastorelli, i lutini invece elei satiri, che fa parlare cigni e bestie feroci, non riconduce, come afferma il Biaggi, ad una antica e poetica semplicità, ma rinfanciullisce l’arte; nè è buona ragione perchè uomini maturi si sono compiaciuti nelle carnifìcine letterarie di correggerli mettendo loro i balocchi nelle mani. Il Biaggi che loda Wagner non sembra però accettarne tutte le forme; biasima nel Lohengrin la monotonia e la minuziosa analisi musicale che produce lentezza, peso, e sopprime gli effetti, e infine non pare disposto a far troppo buon viso alla scuola puramente drammatica. Ecco come ne ragiona: Le due arti da cui è costituito il melodramma tendono continuamente a sopraffarsi, e di qui, sòrte subito dopo la riforma del secolo XVI come abbiam visto e vive sempre e sempre combattenti e sempre armate delle medesime argomentazionioni, — due scuole: la musicale, dirò così, e la drammatica. — La prima vince l’avversaria e trionfa, quando sorgono i compositori ricchi d’abbondante ed eletta fantasia melodica. Col canto lirico, la musica raggiunge i più naturali, i più universali e i più potenti suoi effetti. Con essi ella agisce direttamente sul cuore e allora, vuoi nelle scuole o vuoi nelle platee non è più chi cerchi altro dal dramma che un accettabile pretesto al far musica, nè chi cerchi alla rappresentazione scenica la fedele e ragionata pittura del vero. Inutili i trattati filosofici e inutili i sistemi; il cuore commosso ha argomenti ed ha ragioni che la ragione non giunge ad intendere, e che la vincono e la vinceranno sempre. L’altra scuola, non accadrebbe dirlo, si fa strada e signoreggia, quando mancano le abbondanti ed elette fantasie melodiche; e quando i melodisti cadono (il che, per verità, segue frequentemente) ne’modi comuni, nella volgarità e in quelle insipide sequele di suoni che tutti e musicisti e non musicisti sanno immaginare e sanno mettere insieme. La scuola allora trionfa, non è dubbio; ma trionfa però a forza di restrizioni e di concessioni; che se volesse seguire rigorosamente il discorso della ragione, essa sarebbe inevitabilmente condotta a fai’ tavola rasa della musica e a fermarsi al dramma propriamente detto, al dramma parlato. Dotta e ricca d’osservazione psicologiche è la memoria del cav. Maglioni intorno ad un quesito accademico sugli accozzi di suoni ad intervallo di seconda e sulle successioni di quinte. Egli stabilisce con molto giudizio come l’uso di queste maniere possa non solo essere tollerato ma in alcune occasioni necessario all’effetto, e avvalora il suo dire con molti esempi. Il sig. Adolfo Baci nella sua Memoria intorno al teatri) di musica in Italia, fa la diagnosi di un ammalato con molto acume, e suggerisce ottimi rimedj. Egli è sempre nel vero quando biasima e quando corregge; finita la lettura delle parole del Baci siamo rimasti più che mai convinti che i nostri splendori musicali sono più in potenza che in atto e piuttosto come privilegio di pochi eletti che come patrimonio pubblico. Belle parole e assai opportune scrive il sig. Baldassare Gamucci, prendendo ad esame le condizioni presenti della composizione, che secondo lui è in decadenza, colpa la trascuranza degli studi fondamentali. Pompeo Cambiasi è benemerito della statistica teatrale; da molti anni egli segue pazientemente le fasi dei nostri teatri, e le registra; il suo recente libro: Rappresentazioni dei Regi teatri di Milano dal 1778 al 1872, è come uno storico riassunto degli splendori passati, che può giovare immensamente allo splendore avvenire. La fatica.del Cambiasi, oltre aH’iiitento, merita lode per l’ordine e per la chiarezza con cui è condotta, in guisa da rendere facilissima qualunque ricerca; nè l’autore fece solo prova di pazienza, ma di criterio giusto ed imparziale nell’assegnare gli esiti delle opere in ogni stagione, ufficio spinoso da cui è uscito senza graffiarsi e senza graffiare. APPENDICE ■ oj=^=ia—

LA SORELLA DI VELAZQUEZ LEGGENDA STORICA DI MARIA DEL PILAR SINUÉS DE MARCO VERSIONE DALLO SPAGNUOLO DI DANIELE RUBBI (Continuazione, Vedansi i N. 25, 26, 27, 28, 29, 30, 31 e 32/ XI. IL RITRATTO DELLA REGINA. Nell’istante in cui il de Olivares usciva dalla camera di Anna, Velâzquez entrava in quella del Re. Un istante dopo vi entrò pure il favorito, senza farsi annunciare, come usava. Nel vedere entrare il conte-duca, Filippo IV indirizzogli uno sguardo di ansiosa interrogazione, che fu corrisposto da altro di orgogliosa soddisfazione, e con un sorriso pieno di promesse. Velâzquez, pallido, magro, cupo, appoggiavasi macchinalmente alla spalliera d’una sedia; quegli occhi infossati da tre giorni di disperazione e tre notti d’insonnia, guardavano vagamente; le guancie incavate, il disordine de’ capegli, e la barba non rasata sulla sua faccia pallida e rannuvolata, gli davano un aspetto iracondo, violento e doloroso. Bastava fissare lo sguardo una sol volta su quell’uomo per accorgersi che aveva l’anima travagliata da un cruccio inconsolabile. Nel vedere entrare il conte-duca, i suoi grandi occhi acquistarono fierezza e s’impiantarono schizzanti furore sul volto del favorito. Il Re, che s’era commosso profondamente nel notare l’aspetto di Velâzquez, sentì che l’ira dominava la sua tenerezza quando vide la foga dipinta sul volto del pittore. In quanto al de Olivares, sostenne freddamente la iraconda occhiata di Velâzquez. — Signore, disse questi dirigendosi a Filippo IV, vengo a chiedere a V. M. che mi restituisca la sorella che avevo, e che mi è stata involata. Attonito il Re, per così violento esordio, si volse a guardare il favorito. — Questo sguardo, continuò Velâzquez con voce cupa, questo sguardo mi dice, signore, che il ladro di Anna è il conte-duca. E Velâzquez, col volto infiammato, pose la mano sull’elsa della spada, e avanzò due passi verso l’Olivares. — Velâzquez, tu sei pazzo!... esclamò il Re, punto da tanta audacia, ma nello stesso tempo commosso profondamente da cosi intenso dolore. — Sono in possesso di tutta la mia ragione, signore, rispose il pittore di camera, levando la mano dall’impugnatura della spada; ma assicuro V. M. che la perderò se quest’uomo continua a stare in mia presenza. Velâzquez tacque aspettando che il Re faces^ uscire il conteduca; ma il debole monarca non si arrischiò di formulare un ordine, il cui solo cenno aveva fatto infuocare come due bragie gli occhi di quello che avrebbe dovuto eseguirlo. Un sorriso di scherno si dipinse sulle grandi labbra di don Gasparo de Guzman y Pimentel. — S. M., disse egli accentuando tranquillamente le sue parole, S. M. pare che non abbia difficoltà di sorta che io ascolti la domanda della vostra amante. — Menti come un villano! gridò il pittore di camera, rosso dalla collera; e cavandosi un guanto, che fece a pezzi con rabbiosa frenesia, lo gettò sul volto del favorito. Andate! continuò con sorda voce, partite se non volete che vi sputi in volto, signor conte-duca de Olivares!.... Partite, o viva Dio saprò strapparvi, colla mia spada, quanto pagaste a comperare il mio mulatto Giovanni e il nome del luogo dove avete nascosta non l’amante ma la sorella mia. — Prima di tutto, signor Don Diego, rispose il conte-duca,