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252 GAZZETTA MUSICALE DI MILANO buffi passi dal riso alle lagrime, come sia accurato e scrupoloso dell’evidenza dei minimi particolari, e come abbia una voce maestosa a un tempo e dolce, e come, meglio che un grande artista, paia proprio di veder sulla scena il personaggio del libretto, è cosa che tutti sanno a memoria; quanto ai battimani, alle chiamate, alle interruzioni d’un’ammirazione prepotente, chi non ha udito nè visto, ha facilmente immaginato; fu in una parola un trionfo, meglio: un altro trionfo, perchè il trionfo zoppica dietro a quest’artista eccezionale dello stesso suo passo, e non lo lascia un momento. Gli altri esecutori si tolsero tutti lodevolmente d’impegno; la signora Trebbi ha una vocina dilicata, ma molta arte di canto, molta espressione nell’accento, molto talento scenico e molta buona volontà; la signora Luini nella parte di Olimpia fece pompa di voce robusta e gradevole, e di sufficiente disinvoltura; le due artiste furono entrambe applauditissimo; degli uomini il tenore Parasini riportò la palma; si serve con garbo d’una voce gradevole ed ha momenti di vera espressione drammatica; ottimo sarebbe il Baldassari, senza il difetto della sua voce, per natura alquanto ribelle all’intonazione, e se per dissimulare la sua gioventù, ora che si è dato alle parti di buffo generico, non fosse costretto a perdere di quella naturalezza che lo faceva una volta cosi simpatico al pubblico. Anche le seconde parti uscirono dalla prova con onore, e i cori anche, e T orchestra anche, in conclusione; un miracolo autentico! Veniamo al nuovo spartito del Cagnoni. Il libretto è di Ghislanzoni, ed è uno dei migliori che egli abbia fatto; la disposizione scenica è bellissima; tutto l’argomento della Gerla di Papà Martin è concentrato in tre atti non lunghi, e non vi manca nulla; ei è l’orgia, il sentimento, la vis comica, e l’efficacia drammatica; ei sono situazioni d’effetto sicuro; T argomento, cosa fenomenale nei melodrammi, afferra lo spettatore, lo trattiene, lo trascina. La musica del Cagnoni ha il merito di rispettare le intenzioni del libretto; ed è una fortuna anche pel poeta. Se, per citare un esempio, nella scena che precede la partenza del figlio di Martin e nella partenza stessa, i movimenti fossero, più rapidi, o la musica più rumorosa, o avesse maggior parte il cantabile, tutto il bellissimo effetto di quei singhiozzi, di quei silenzii sarebbe perduto, e non mancherebbe certo il critico avveduto per accusare il poeta di aver dato al maestro una situazione falsa, impossibile e di nessun effetto. Questo merito di Cagnoni è evidente in tutta T opera; la musica non fa mai violenza alle parole, scorre rapida o lenta, canta sul palco scenico o mormora in orchestra sempre opportunamente. Solo nel primo atto non raggiunge la scamiciata follia dell’orgia; non dice forse meno delle parole, ma qui doveva dir più; agli scherzi misurati del libretto occorreva una inverniciatura, e se il can-can al levarsi del sipario è finito, musicalmente ei poteva stare ancora nel preludio o nella stretta o che so io; era il momento di mostrarsi italianamente Offenbach più che è possibile. Cagnoni non l’ha fatto, e la scena è rimasta fredda, nè basta a rinfocolarla.il coro con accompagnamento di bicchieri con cui finisce l’atto, pezzo di un certo effetto, ma non molto originale. Nel primo atto, per altro, sono schiette bellezze; tali il duetto d’entrata tra Martin ed Amelia, e parecchie frasi del successivo terzetto; e tale in special modo il sestetto con cori, che è forse la pagina più festosa e più bizzarra dell’opera. Nel secondo atto le bellezze abbondano; la critica anatomica è quasi costretta a darsi vinta, e lasciarlo intero e dirlo bello tutto d’un pezzo; per sceverare il meglio accennerò il quartetto che è di fattura squisita e che si chiude con un canto di Martin in tempo di valzer Su presto all’opera - Coccola mia, poco originale ma graziosissimo. Bello è il successivo duetto tra Armando ed Amelia, specialmente quando cantano a due: Noi sosteremo al limite; bellissimo per l’efficacia drammatica, e in gran parte per merito di Bottero, parve l’altro duetto di Martin e Charanzon; qui è una magnifica frase: Per quaranl’anni, là... sulla via; commovente è tutta la scena in cui Martin inganna la moglie per risparmiarle il dolore diveder partire il figlio; alle parole di Martin di quel buon Moriseau vi ricordate, l’orchestra fa un accompagnamento cantabile pieno di melanconia; la partenza accompagnato da Giovanni, giovane mulatto che aveva comperato nelle Indie, e portando al pittore una magnifica catena d’oro. Quando l’ammiraglio parti, Giovanni si mise a seguirlo, ma il burbero marinaio, voltosi all’improvviso: — Ricordati, gli disse, che quando io dono una catena d’oro lascio anche T astuccio. Da questo istante appartieni al signor Velâzquez.»E partì con passo altiero, appena ebbe pronunciate queste parole.»I1 povero mulatto, tutto afflitto e coll’aria stralunata, rimase là, e i discepoli di Velâzquez lo pigliarono come un essere stupido e col quale potrebbero divertirsi; infatti il modo con cui era entrato nello studio, fu per essi una inesauribile sorgente di facezie. Lo battezzarono col nome del suo primo padrone, chiamandolo Giovanni de Pareja, nome che conservò sempre. Velâzquez, al quale faceva compassione, lo incaricò della pulizia dello studio, cosa che esigeva poco lavoro, ma dove aveva da esercitare molto la sua pazienza.» Giovanni, quando c’era l’artista, trovavasi molto contento; ma quando usciva, lo schiavo era vittima, da parte degli scolari, di celie che tutti i giorni aumentavano. Stanco alfine, delle burle dei discepoli, prese il [partito, onde evitarle, di fuggire, quando non c’era Velâzquez, in una specie di cortiletto ignorato, dove si nascondeva e ponevasi al coperto da’ suoi persecutori.» Giovanni non aveva potuto vedere a dipingere due anni di seguito, nè udire in quei due anni i più grandi personaggi portare sino al cielo la pittura, senza concepire un invincibile desiderio di maneggiare pure i colori. Per ingannare le lunghe ore di solitudine in cui lo lasciava il padrone, Giovanni incominciò a dipingere. Perciò aveva in serbo pennelli frusti e avanzi di colori che metteva da parte. Sapeva, che non faceva altro che tirar giù; ma ei trovava gusto e passatempo, serbando il maggiore segreto sopra questa distrazione, sospettata da nessuno». Sin qui parla l’autore della interessante e veritiera leggenda: Rubens in casa di Velâzquez’, e io credo che non potevo far meglio conoscere Giovanni di Pareja che copiando il periodo nel quale il mio amico, il signor Munoz Gaviria, lo presenta ai suoi lettori. Ora compirò di ritrarre questo personaggio come mi fu dato sapere. Giovanni de Pareja provava per Velâzquez una specie di adorazione appassionata, adorazione che estendevasi a tutto quanto apparteneva all’artista; nulla eravi per lui di tanto bello, di tanto grande, di tanto santo come Velâzquez, e si sarebbe lasciato ammazzare per evitargli il più leggiero dolore. 0’ era in quello schiavo, verso il suo padrone, il tenero e sollecito amore di una madre, e il sublime e fedele attaccamento di un vecchio cane; con istraordinaria premura attendeva al suo servizio, al suo cibo, alla sua toletta, e non si fidava di nessun domestico in quanto riguardava il proprio padrone; aveva cura de’ più piccoli particolari delle sue comodità e benessere, graduava la luce nello studio, preparava i colori, regolava i cavalletti, e passava delle ore intere a guardarlo a dipingere entusiasmato in una fanatica contemplazione. Velâzquez, da parte sua, lo amava pure assai; confìdavagli i suoi più importanti segreti, e conversava con esso mentre lo serviva a tavola. La vivace intelligenza di Giovanni gli piaceva molto, e ammirava la squisita sensibilità di quel cuore, la generosità di carattere e la illimitata lealtà. Il suo dolore, nel lasciare in Madrid l’adorata Anna, diminuissi in gran parte, nel pensare che la metteva sotto la custodia di Giovanni; e il cuore del mulatto allargossi di contentezza nel ricevere quell’incarico. Oh quale amara disperazione s’impadroni dell’anima di fuoco del mulatto, nel vedere che gli strappavano la sua giovane signora! Tutti i tormenti dell’inferno scatenaronsi nel suo cuore quando si convinse che erano inutili tutti gli sforzi per rompere la forte legatura che lo opprimeva. Quando gli altri servi lo slegarono, si strappò il bavaglio con un colpo cosi furioso e disperato. che le sue labbra colorironsi di sangue. Si aggirò come scemo per la camera, e poscia volò sulla strada dandosi a corsa sfrenata. Quale era il suo disegno? Quale la sua speranza? Neppure lui stesso lo sapeva; nella sua testa infuocata era fisso l’ardente pensiero di incontrare Anna prima dei due giorni in cui Velâzquez doveva ritornare a Madrid, o uccidersi se non poteva venirne a capo. Queste due idee lo facevano a intervalli sorridere d’un riso in cui entrava per molta parte la pazzia. (Continua)