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GAZZETTA M U SI C A L E D I MIL A NO 242 Rivista Milanese APPENDICE (Continuazione, Vedansi i A’. 25, 26, 27 e 28/ VL ISABELLA Df BORBONE. 11 Sabato, 20 luglio. La settimana passata ebbe luogo il primo saggio finale degli allievi del conservatorio. Si noti il battesimo modesto di questi esperimenti, perchè la novità del nome risponde alla novità della cosa; negli anni passati dopo gli esami pubblici aveva luogo la prova generale pubblica della prima accademia finale, poi la prima accademia finale, poi la prova generale pubblica della seconda accademia e finalmente la seconda accademia. Queste accademie, lo ha osservato l’egregio Filippi in una recente appendice, erano una splendida concessione alla vanità degli allievi migliori; gl’inviti venivano prodigati così generosamente, che un terzo del pubblico era costretto a starsene nei corridoi e un altro terzo se ne tornava a casa dopo aver provato invano tutti gli apriti Sesamo consigliati dalla teorica e dalla pratica per far spalancare le roccie di una folla compatta. Le sedie erano riservate, con cavalleria, alle signore, e ei erano sempre due bravi paladini, degni di un evo meno moderno, incaricati di far rispettare questa gentil regola di cavalleria; chi era venuto un’ora prima per buscarsi un cantuccio doveva cederlo ritrosamente ad una bella o ad una brutta, e se non gli accomodava star in piedi pigliava la via dell’uscita quasi altrettanto difficile di quella dell’entrata; cosicché di solito alle prime battute della sinfonia dell’alunno tal di tali, il pubblico si trovava leggiadramente, ma poco dottamente, composto di dame col ventaglio e di cavalieri colFocchialetto. Quanto ai danni scolastici di questo sistema si riassumono così: perdita di tempo per preparare le accademie, spese inutili, e infine nessun profitto vero agli allievi. Il Mazzucato ha posto la quistione degli esami in altri termini; ha ristretto il numero degli inviti, ha dato in mano degli allievi le redini del saggio finale, volendo che anche l’orLA SORELLA DI VELAZQUEZ LEGGENDA STORICA DI MARIA DEL FILAR SINITÉS DE MARCO VERSIONE DALLO SPAGNUOLO DI Riassumiamo, diceva fra sè l’Olivares, intanto che lentamente s’incamminava alla camera della Regina, riassumiamo: il Re è interamente abbindolato da me, e gli.sembra d’aver fatto nulla per provarmi la sua gratitudine, anche dopo d’avermi dato un tesoro con questo anello; la Regina mi deve servire per rapire la fanciulla senza ch’io c’entri punto e in questa maniera ottengo di conservare pura la povera Anna che tanto ama il mio caro Velâzquez, e di liberarmi dal mio rivale, il duca delTlnfantado, che vuole proteggere la fiamminga. I miei affari vanno a gonfie vele. Nel dire queste parole, giungeva alla porta della camera della Regina, dove si fece annunziare da. un usciere e nella quale per certo non gli era tanto facile penetrare come in quella del Re. Quando il conte-duca entrò nella camera della Regina saranno state le dieci di sera; la stanza, poco illuminata, aveva i due balconi aperti, dai quali scendevano due raggi di luna chestra sia composta di soli alunni, fa poche concessioni o nessuna al gusto del pubblico nella scelta dei pezzi del programma, riduce le due accademie finali e gli annessi e connessi a tre esperimenti e li intitola saggi degli esami. E appunto dal primo deduciamo che la innovazione gli riuscì ’ splendidamente; senza grandi effetti ed apparati, questo trattenimento parve generalmente meglio riuscito degli anni scorsi; l’orchestra diretta dall’allievo Cerquetelli fece benino assai il suo compito, e i singoli allievi cantarono e suonarono senza soverchie trepidanza infinitamente meglio Il trattenimento si aprì colla sinfonia dell’allievo Rossi: è lavoro in cui non manca una certa spigliatezza di forme e un certo magistero strumentale; vi manca l’originalità, ma all’età del Rossi si può essere tutto fuorché sè stessi. Fra i pezzi strumentali i meglio accolti furono la bella prima sinfonia per due violini di Viotti eseguita assai bene dagli alunni Marcocchia e Bianchi, il Concert Stück di Weber, eseguito da una pianista di quattordici anni, la signorina Gallone, con una sicurezza veramente rara alla sua etcì e il duetto di Amici per due contrabassi sui Puritani, pezzo in cui gli alunni Carini e Pinetti fecero miracoli di agilità e superarono enormi difficoltà colla sicurezza di maestri. Un duetto per due arpe sulla Luisa Miller valse meritati applausi alle signorine Cavalieri e Vietti, e così il duetto per due pianoforti di Fumagalli alle alunne Mantegazza e Barone. Rimangono due terzetti, uno per flauto, oboe e clarinetto di Cavallini, l’altro di Kuhlaü per tre flauti; nel primo lavoro, ricco di belle cose, ebbero applausi gli allievi Rampezzotti, Pozzi, Tamborini; nel secondo meritarono lode i signori Rampezzotti, Carcano e Gillone. La parte cantabile non ha di solito se non rappresentanti del sesso debole. La signorina Bignami cantò con molto sentimento una specie di preghiera di Stradella, la signorina Bardelli nella cavatina del Tancredi sfoggiò bella voce e buona scuola; assai bene la signora Blenio nella melodia Rachele a Neftali di Meyerbeer; benissimo l’alunna Malvezzi nella scena e romanza del Roberto il Diavolo. Questo primo saggio ha lasciato desiderio del secondo che avrà luogo, crediamo, lunedi. sul letto dell’Infanta Maria Teresa, messo nel centro della camera in causa del grande calore. Il letto era vuoto; la reale ammalata, che contava qualche anno, era occupata a fare un castello di carte sopra una sedia vicina alla Regina, che la contemplava con affetto. Isabella di Borbone aveva appena compiti i ventitré anni; il suo volto, dolcemente ovale, era, più che belio, aggradevole e simpatico; i suoi occhi neri, molto grandi, lasciavano vedere quel leggiero cangiante azzurro che somiglia all’ardesia, e che tanto fascino dà alio sguardo che io possiede; i capegli alzati, acconciati alla Fuoco, parevano di seta, e spiccavano per foltezza e pel bellissimo colore castagno. Non si potevano chiamare perfetti nè il suo naso, nè la sua bocca, la quale era di un’estrema piccolezza; ma la fresca pallidezza di quel sembiante, la graziosa linea della fronte e il dolce sorriso le davano una inesplicabile parvenza assai più seducente di quella che proviene da una bellezza perfetta. Portava un vestito bianco, liscio, e il colletto di battista, pure liscio, faceva risaltare il colore lievemente bruno del suo volto. L’Infanta Maria Teresa era il fedele ritratto della madre sua; gli occhi erano però di un azzurro più chiaro e trasparente, la sua tinta più bianca e i capegli più ricci avevano lo smagliante colore dell’oro; quella cara, affabile e vispa piccina fu poscia la sventurata consorte di Luigi XIV di Francia.. Quando questa vide il conte-duca fece un gesto come di disgusto, alzando le sue bianche e delicate spallucce, e gli gridò: — Non ti avvicinare veli!... siccome sei tanto lungo, coll’aria che muovi nel camminare mi fai cadere il mio castello. Ma codesto avviso arrivò tardi; il movimento che fece il favorito per baciare la mano alla ragazzina, agitò un soffio di vento contro le carte, e l’edificio cadde al suolo. — Hai visto ora che dove tu sei non ei possono essere dei palazzi! esclamò Maria Teresa ritirando con rabbia la mano: andrò a farli sul tavolo di marmo del mio babbo, e guardati bene dal venir là; guardati, veli! Nel sentire la frase di sua figlia «hai visto che dove tu sei non ei possono essere dei palazzi», un mesto sorriso sfiorò le