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216 GAZZETTA MUSICALE DI MILANO ancora presente al mio spirito; però io non potrò giammai rivedere un ballo vero mantenendomi serio. Andai un’altra sera a veder eseguire dai burattini una commedia intitolata: Sant’Elena o la morte dì Napoleone. Si alzava il sipario e si vedeva Napoleone fornito d’una testa enorme, seduto sopra un divano nella sua camera di Sant’Elena; un valletto entrava ed annunziava un alto personaggio in questa maniera abbastanza oscura: Sir Jeu ud se on Low! Sir Hudson (bisognava vedere il suo uniforme!) era un mostro perfetto paragonato a Napoleone. Egli era spaventosamente brutto; la sua faccia era orribilmente sproporzionata; aveva, in forma di mascella inferiore, un grosso pezzo di legno che esprimeva la sua natura tirannica ed indurita. Cominciò il suo sistema di persecuzione chiamando il suo prigioniero «generale Bonaparte» al che il prigioniero rispose in tono di vecchio tragico: Sir Jev ud se on Lowe, non mi chiamate cosi! Ripetete ciò che io dirò e lasciatemi: «io sono Napoleone, imperatore di Francia!» Sir Jev Hudson Low, niente affatto furbo, prese a parlargli d’un’ordinanza del governo britannico, che regolava la vita domestica di Napoleone, le mobiglie, ecc., e limitava il numero dei suoi servitori a quattro o cinque. «Quattro o cinque persone per me! grida allora Napoleone, per me che avevo ultimamente centomila uomini sotto i miei ordini, e questo uffiziale inglese viene a parlarmi di quattro o cinque persone!» Durante tutta la commedia Napoleone ( che parlava precisamente come il vero Napoleone e faceva dei frequenti monologhi) si mostrava assai amaro verso «gli ufficiali inglesi» e verso «i soldati inglesi»! e ciò a gran soddisfazione dell’uditorio, incantato di vedere Low ributtato, e che ogni volta che Low diceva «generale Bonaparte» — e non cessava di dirlo benché fosse sempre ripreso come prima — lo prendeva in orrore! Furbo chi potrebbe dire perchè! Gl’Italiani, lo sa Dio, hanno in fatti assai poche ragioni d’amare Napoleone! La commedia non aveva intreccio, se non è che un uffiziale francese, travestito da inglese, veniva a proporre un piano d’evasione; egli era scoperto, ma non prima che Napoleone avesse rifiutato con grandezza d’animo di ricuperare la libertà per sorpresa. Low ordinava di appiccare immediatamente l’uffiziale; poi succedevano due o tre lunghi discorsi che Low rendeva meAPPENDICE LA SORELLA DI VELAZQUEZ LEGGENDA STORICA DI MARIA DEL FILAR SINUÉS DE MARCO VERSIONE DALLO SPAGNUOLO DI DANIELE RUBBI (Continuazione, Vedi il N. 25J. II. AMORE D’ARTISTA. L’uomo, che spiava, tese l’orecchio con avida attenzione nel sentire l’esclamazione di Velâzquez; questi rimase silenzioso alcuni istanti e la sublime espressione del suo sembiante veniva sostituita da profonda tristezza e da amaro abbattimento. Il duca pigliò affettuosamente una delle sue mani, e lo contemplò per qualche tempo con affettuoso interesse. — Voi avete qualche cruccio, don Diego, gli disse dopo d’aver aspettato invano che il pittore rompesse il silenzio: non sono, aggiunse; bastante amico vostro per confidarmelo? — Ah, si, signor don Giovanni! rispose l’artista rinvenendo dalla sua distrazione e stringendo la mano che teneva la sua; vi dirò da dove nasce il mio cruccio. morabili terminandoli con un yes ben accentato (affine di far vedere che egli era inglese) che sollevava un uragano di applausi. Napoleone fu talmente commosso da questa catastrofe che svenne e fu portato via da due altri burattini. Dagli avvenimenti che succedevano si poteva argomentare che egli non si rimetterebbe da questo colpo; in fatti lo si vedeva nell’atto successivo in camicia bianca, coricato nel suo letto, di cui le cortine erano cremisi e bianche Una signora, alquanto prematuramente vestita a lutto, e due piccoli fanciulli erano inginocchiati al suo capezzale, mentre egli moriva decentemente; la sua ultima parola era: Waterloo. Nulla di più risibile. Gli stivali di Napoleone erano al di sopra d’ogni elogio; si abbandonavano da sè stessi agli esercizii più sorprendenti; si raddoppiavano mettendosi sotto le tavole, dondolandosi nello spazio e alcune volte, nel mezzo d’un discorso, trasportandolo lontano — disgrazia che l’aria profondamente melanconica stereotipata sul suo viso non rendeva certo meno comica. A un certo punto, volendo mettere fine a una conversazione con Low, Napoleone s’accostava ad una tavola e vi leggeva un libro. Niente di’ più burlesco che il vedere questo corpo coricato sopra un volume, come un cavastivali, co’ suoi occhi fìssi immobilmente verso il fondo della platea. Egli era anche eccellente nel suo letto col suo enorme colletto di camicia e le piccole mani stese sulla coperta. Vi era anche il dottore Antommarchi, con lunghi capelli lisci, come quelli di Massworn; essendo avvenuto un po’di disordine nei suoi fili, egli si librava intorno al letto e dava le sue consultazioni per aria. Low era particolarmente bello alla fine, quando, intendendo il dottore e il cameriere dire: «l’imperatore è morto» egli levava l’orologio e terminava la commedia sciamando con quella brutalità che era tutta sua: «Ah! ah! sei ore meno undici minuti! il generale è morto, e la spia appiccata!» E il sipario cadeva trionfalmente. Carlo Dickens. — Presumo che proverrà dall’amore, disse sorridendo il duca. — É supponete benissimo, rispose Velâzquez emettendo un sospiro, come chi si sente sollevato il cuore da un peso enorme. — E che dice in proposito la mia signora donna Giovanna Pacheco, vostra nobile sposa? — Giovanna nulla sa! disse a bassa voce l’artista con accento melanconico e rimanendo di nuovo profondamente meditabondo. — Ascoltatemi, signor duca, soggiunse dopo breve pausa; voglio confidare alla vostra lealtà il segreto più importante della vita mia, e vi bastino queste parole perchè l’animo vostro cavalleresco sappia di che si tratta. Chinossi leggermente don Giovanni Hurtado de Mendoza in segno d’assentimento, e il pittore di camera parlò così, mentre che il cavaliere vicino al chiosco ascoltava colla maggiore attenzione, coprendosi, come meglio poteva, il volto coll’ala del suo cappello: — Quando partii dalla corte, dove dimoravo da un anno, per iscopo di viaggiare, rimasero in Siviglia la mia sposa e mia figlia. Io percorsi l’Italia, la Germania e le Fiandre, lasciando per ultimo codesto paese, perchè desiderava conoscere e intrattenermi per qualche tempo col Re della pittura, il celebre Pietro Paolo Rubens, pel quale sentivo una specie di appassionata ammirazione. Non potei, tuttavia, soddisfare il mio desiderio. Rubens trovavasi in Inghilterra, giacché, tanto abile diplomatico quanto pittore, era stato incaricato dall’infanta governatrice delle Fiandre di trattative di pace. Nel vedere fallita la mia speranza, decisi di partir presto da Anversa: ma prima volli vedere la città a mio bell’agio. In allora mi trovava in preda a una nera melanconia, che per nulla trovava sollievo; spesso mi mancava l’ispirazione, la quale mi veniva soltanto quando dipingeva scene volgari e scurrili; nessuna imagine di bellezza germogliava nell’anima mia, che piangeva come una schiava chiusa in oscuro carcere. Ammogliato