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176 Roschen canta in seguito una eleganti e d’un’armonia forme ( Continua) contiene una bella frase: si lancia ben tosto in Le parole con cui abbiamo narrato la burletta del signor Bertani da Reggio hanno ferito, pare, i Reggiani, e VItalia Centrale le ha biasimate severamente. Questo stimabile giornale vede nelle parole «Reggio ha la fortuna di possedere il sig. Bertani» uno scherno a tutta la popolazione. E un correre molto innanzi, e un impermalosirsi proprio per meno di nulla. Potremmo dire che quelle parole erano uno scherzo innocentissimo, ma è proprio necessario? Non solo non lo crediamo necessario, ma non abbiamo scrupolo di andare più in là, e dire che la città che non possedesse un burlone, almeno uno, della fatta del signor Bertani, sarebbe una città disgraziata. Milano, col dovuto rispetto al sig. Bertani, ne possédé più di mille, e se ne tiene. Faust -. ma ginalissimo, e il cambiamento di misura che fa passare alternativamente la melodia dal 214 a tre tempi ha alcun che di bizzarro e di fantastico. Nel quadro seguente siamo dinanzi alla chiesa in cui si celebra il matrimonio del conte Hugo e di Kunigonda; il coro religioso, ad imitazione dei corali protestanti, è d’un bell’effetto. La giovine cavatina in sol min. di delicatissima. «L’aria seguente di ’ Di Rosa il dolce amore GAZZETTA MUSICALE DI MILANO una serie di gorgheggi affatto fuori di stagione. La gran scena del ballo ha poco ispirato il compositore; il duetto tra Hugo e la moglie è tenero e languido, le danze sono graziose, ma la catastrofe finale, la sfida di Hugo, il duello con Faust, non sono tradotti in maniera potente; la parte del demonio non ha rilievi spiccati; egli non agisce più, canta una parte, e non ha F aria di dirigere col riso sarcastico sulle labbra questa scena di morte - non è più un demonio.» Si può fare lo stesso rimprovero all’aria che Mefìstofele canta dopo questa gran scena; è diabolica d’intonazione e di fattura, ma non di carattere. Vi hanno ancora begli accenti nel finale, frasi commoventi qua e là, ma l’autore non ha incontrato la potente ispirazione che avrebbe abbisognato per dipingere musicalmente la rovina di Faust, la perdita eterna dell’uomo che si è dato al demonio». Restringendo in poche parole il giudizio che si può portare sopra quest’opera che fu lungamente la sola interpretazione musicale di Faust nota ed ammirata, si può dire che la melodia vi è troppo frantumata e manca d’originalità, che il lavoro armonico è curiosissimo ma troppo dotto, e che in generale pare scritta meglio per gli eruditi che per il pubblico. La parte di Faust è in chiave di baritono, cosa che fu poi imitata da Schumann, con molto maggior rispetto però alla natura della voce che Spohr non abbia avuto. Difetto ancora più grave in quest’opera, e in generale in tutte le opere di questo musicista che dopo la morte di Weber ebbe fama del primo compositore tedesco, è l’accumulamento delle armonie più disparate nel più breve spazio di tempo possibile, in maniera da fare talvolta passare moltissimi accordi differenti sopra una sola nota di melodia. Strana cosa; non ostante l’abbondanza di contrasti, di colori, l’arruffìo di scene, di personaggi, di passioni accumulati dall’imbroglio melodrammatico del signor Bernard, ciò che si trova mancare nella musica di questo Faust è appunto lo slancio, il contrasto di varietà, tutto insomma ciò che dà la vita alla musica teatrale. E tuttavia Faust e Jessonda sono le migliori opere liriche di questo compositore, il cui temperamento e le cui facoltà, osserva giustamente il signor Jullien, convenivano molto meno al teatro che alla musica sinfonica. Sabato, 25 maggio. Il concerto lungamente minacciato alla Scala, a beneficio elei danneggiati dal Vesuvio, ebbe finalmente luogo giovedì, e in complesso andò a vele gonfie. La buona scelta dei pezzi e l’interessamento che ispiravano alcuni fecero tollerare l’esecuzione non sempre felicissima, cosicché chi s’era preparato a tutte le conseguenze della noja, trovò con sua massima maraviglia il sistema mascellare intatto alla fine dello spettacolo. Ingenerale la parte strumentale fu più felice della parte vocale. La sinfonia di Meyerbeer La Stella del Nord, con cui incominciò il trattenimento, fu eseguita con rara precisione e con molto colorito dall’orchestra diretta dal Faccio e dalla banda nazionale, e fu uno dei pezzi più simpatici. La nota ouverture dell’E’gmont di Beethoven, un vero gioiello d’ispirazione e di fattura, e una sinfonia in Do sulla tragedia Maria Antonietta di Faccio, ebbero uguale esecuzione ed uguale successo. Quest’ultimo componimento che aveva il prestigio della novità, è una concezione maschia, robusta, ha le forme nervose e i colori sanguigni del terrore. Il bravo ‘Cavallini con una fantasia per clarino, eseguita com’egli sa, compì la parte strumentale del concerto. Il pezzo più interessante, non della parte vocale soltanto, ma di tutto il trattenimento, fu il Cantico: Roma di Mazzucato per cori, orchestra e banda. L’esecuzione fu perfetta. L’effetto solenne. Mazzucato ha posto in questa cantica l’anima d’un artista, e una sapiente varietà di ritmi che non cagiona un momento di stanchezza. Quelle trecento voci di uomini, donne, fanciulli e strumenti si alternano, si interrogano, si rispondono sempre calde ed appassionate, poi si fondono in una sole voce gigantesca e prorompono in un inno glorioso. È musica patriottica, veramente sentita, veramente ispirata, e gli effetti straordinarii di sonorità non turbano l’aria solamente, ma vanno al cuore.