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140 GAZZETTA MUSICALE DI MILANO dell o stampo di Giuseppe Verdi, io non ammetto, tutt’al più, che modificazioni cronologiche e differenza di scuole. «A torto, secondo me, si opina da molti che la vera musica italiana debba constare di semplici e nude melodie. — Se Porpora, Pergolese, Paisiello, Cimarosa, Fioravanti non seppero darci quegli artifizi orchestrali, onde, preconizzato dal nostro Paër, fu poi maestro Rossini; egli è che ignoravano completamente le masse corali e le orchestre al di là del quartetto. Mercadante, che, se alla profonda scienza musicale avesse accoppiato un po’ più di slancio, sarebbe forse riuscito a dominare su tutti, seguì i novatori sulla via del progresso; Donizetti, invece, talento versatile e sbrigliato, rimeggiò il tu per tu fra nuovo e vecchio, tra caposcuola e caposcuola e, come avviene sempre di chi troppo vuole abbracciare, non riuscì nemmanco a foggiarsi una caratteristica fisonomia; Bellini, intanto, tutto ispirazione, tutto passione, tutto poesia, col far prevalere le sue melodie pure, sublimi, divine, ribadì il pregiudizio. «Fu, dunque, il caso in gran parte ed in gran parte la deficenza assoluta di buoni melodrammatici, dappoiché lo stesso Romani, comunque ottimo verseggiatore, fosse eminentemente plagiario e modellasse ogni suo lavoro ad un unico plasma; che radicarono in noi uno erroneo concetto dell’opera musicale, come falsarono il vero concetto della tragedia le tragedie di Alfieri.» Bellini infatti va di pari passo con Raffaello: quello in musica, questo in pittura, riescono identici nel predominante idealismo, nella venustà peregrina dei tipi, nella uniforme, spesso troppo uniforme, dolcezza del colorito e sin nella linea distinta che circoscrive ogni loro delicato contorno. — Ma, se la maniera del divino Urbinate si reputasse la sola buona a seguirsi; chè ne sarebbe del nostro Correggio, tanto più incline al realismo, tanto da quel sommo diversa e per la forza delle tinte, e per l’arditezza delle movenze, e pei contorni sfumati, vaporosi, indefiniti? «Eppure Antonio Allegri ha pressoché agguagliato Raffaello Sanzio; il che dimostra tutte le scuole poter raggiungere il supremo obbiettivo dell’arte, in quella guisa istessa che tutte le strade menano a Roma. «Come la pittura ha fatto tesoro de’ nuovi suggerimenti datile dal daguerottipo, dalla fotografia e sino dagli effetti stereoscopici, sicché nelle prospettive aeree ha potuto attingere un tanto maggior grado di eccellenza; così la musica s’è andata via via arricchendo delle conquiste meccaniche dell’arte del suono ed ha necessariamente dovuto subire una consecutiva trasformazione, che si produce spontanea, come da cosa nasce cosa. — Ed ecco, per me tanto, in che consiste tutto il segreto di codesta musica detta, non so se da senno o per celia, dell’avvenire. «Il nostro falso concetto procede, dunque, da una sorta di ammirazione idolatra per uomini sommi, che, mercè la grandezza del loro genio, ei fecero ammettere siccome la migliore ed unica la loro forma ed accettare per regola fissa ed inalterabile un mero e semplice convenzionalismo. «Da Metastasio a noi, tutti i librettisti indistintamente batterono un medesimo sentiero. Un recitativo, poi una strofetta tutta di un metro, ben tornita, ben rimata, ben conchiusa, per le cavatine e le romanze d’ogni singolo personaggio ed una d’ugual fattura per le rispettive strette. — Tale il riparto di ogni pezzo a solo, tale di un duetto, tale di un terzetto, tale di un pezzo concertato. — Epperò sempre una sola transizione di affetti: dalla speranza alla gioia, dal corruccio alla collera, dal dolore alla disperazione; due punti salienti; mai nulla più; mai il graduato sviluppo della passione, nè il suo progressivo esternarsi, nè il suo complicarsi in un tutto: questo in quanto alla forma che dal poeta si trasfuse necessariamente nel compositore. Poco strumentale, o per manco di scienza, o per scarsezza di mezzi meccanici: questo in quanto al modo. «Oltre ai materiali argomenti d’ampliazione, di cui feci cenno più sopra, la musica, siccome scienza numerica, non potè sottrarsi alla meritata influenza che seppero esercitare i tedeschi. Il grande Beethoven, per non parlar d’altri, che è conosciuto fra noi da non più di 30 anni, equivalse da solo ad una rivelazione: a lui si debbe di avere, per così dire, praticamente applicato e commentato Monteverde e gli arditi saggi d’istrumentazione ch’egli tentò ne’suoi concerti e nelle sue sinfonie, produssero naturalmente tutta una rivoluzione nel campo dell’armonia e del contrappunto. «Nè per averne abbracciato le felici novazioni, la musica nostra si può chiamare imbastardita dappoiché, nelle forme e nei mezzi, l’arte sia essenzialmente universa e non debba mantenersi nazionale chè nella tipica impronta dell’espressione. — In essa, i tedeschi pensano e gl’italiani sentono: eglino la indirizzano al cervello, alla imaginazione; noi, al cuore, agli affetti; ecco la differenza. «Anch’io sono avversissimo a quella musica tedesca, classica, dell’avvenire c che so io; se, con siffatti nomi s’intenda indicare quell’arruffamento inconcluso di suoni e di accordi, algebrico e frastuonante, inanzi al quale il musicista si arresta’ pensieroso e perplesso, come il letterato inanzi ad apparente sgrammaticatura, e si arrovella e si cuoce per risolvere il problema dello artifizio, che, di primo acchito, sembra spropositato, e finisce per gridare eureka, come Archimede, quando gli vien fatto scuoprire il segreto di un ritardo o di una anticipazione in un secondo o terzo rivolto di nona diminuita. E una sorpresa, è un godimento di amor proprio soddisfatto, che egli prende sovente per genuina ammirazione; il sentimento istesso che prova il poeta epitalamico, quando invece d’aver compiuto buoni versi e vera poesia, gli riesce menare a fine un acrostico, od un sibillone a rime date. «Ma quella musica arzigogolata, pesante; a pensieri monchi e fuggiaschi; a meschini ardimenti e novazioni, che altro non hanno di vero se non l’audacia e la novità; che non estrinsecano, non trasfondono, non ispirano nulla; io volentieri la lascio ai wagneromaniaci, a tutti gli anarchici dell’arte, che sciaguattano pel suo placido lago, nella speranza forse che il rimestio conduca a galla, come belletta, la loro supina mediocrità. «Chi, a proposito di codesta sua Aida, accusa Verdi di plagio tedesco, sconosce assai male a proposito e la potenza eminentemente creatrice della sua fantasia e la istintiva indipendenza del suo carattere d’artista; confonde in deplorevole guisa le indeclinabili e generali cagioni di progresso, con quelle tutte speciali di scuola. «Chi lanciò la medesima accusa a proposito del Don Carlo, si ebbe se non altro un’apparenza di ragione. Non così Aida, in cui tutto dalla, prima all’ultima nota, è prettamente, essenzialmente italiano’, perchè continuamente melodico. 1 «Certo che non è più la melodia, come da taluni s’intende, ossia: la melodia vocale quasi isolata, il semplice e nudo canto sostenuto appena dalle solite crome, dai soliti arpeggi; certo che non abbiamo più le tradizionali arie e cavatine a caballetta replicata, nè gli annunzi orchestrali e gli eterni ritornelli della vecchia scuola; certo che taluni canti, come l’invocazione dei sacerdoti nel quarto atto, non sono ritmici; che alcuni altri, come i pensieri dominanti intrecciati nel preludio, imitano lo stile fugato alla Wagner, ed altri ancora, come il duetto finale escono di pianta dalla simmetrica quadratura italiana; certo che, finalmente, in codesta opera, più che in ogni altra, Verdi ha rotto tutte quante le pastoie del convenzionalismo; ma non pertanto la melodia regna da assoluta signora su tutto, persino sui recitativi; ma di taluni scarti dalle viete forme, il pubblico nemmanco si accorge, perocché trovino la loro ragione di essere nelle polimetrie usate dal librettista, come già mi avvenne di segnalarlo; ma lo allontanarsi dalla maniera convenzionata non è insignificante vaghezza di nuovo: tende a dare spicco, evidenza, efficacia maggiore a tutte le varie situazioni del dramma, a scolpirne a vivo il carattere individuale de’ singoli personaggi, a seguirne passo passo ed estrinsecarne i sentimenti, gli effetti, le passioni, in ogni loro transizione, in ogni loro slancio, in ogni loro contorcimento: ed è innegabile, che, per siffatta guisa, siasi semprepiù avvicinato alle vere ragioni di un’arte per eccellenza rappresentativa. «Il preludio è la sintesi del dramma: in esso, prima un motivo mesto e soavemente patetico, affidato a’ violini, che rappresenta l’amore di Aida infelice si, ma ricambiato; poi un altro mesto del pari, ma più severo, più cupo, che rappresenta la passione segreta e reietta di Amneris: e codesti due motivi li udite serpeggiare, con portentosa versatilità di forma, per tutto lo spartito, preannunziando, accompagna le due rivali, siccome riverbero dell’intimo pensiero che le predomina e a cui si devono le maggiori peripezie del dramma e la sua tremenda catastrofe. «1 canti religiosi ed i ballabili, che sono di una assoluta originalità, contribuiscon intanto a determinare il colore del tempo, il carattere locale dell’azione. Non possiamo seguire passo passo il Bettoli nell’analisi che egli fa delle bellezze della musica. Ecco com’ei conchiude: «Io altro non so che ripetere: sublime! sublime! sublime!» La velenosa mediocrità trova lo spartito difettante d’ispirazione e gremito di reminiscenze. — «Ripeterò, a tale proposito le parole di un mio distintissimo collega: «Verdi fu molto accusato di plagio a sè medesimo: ma il primo a non» accorgersi di questi plagi deve essere egli stesso. Tanto chi parla, quanto «chi scrive, ha sulle labbra o nella penna delle parole e delle frasi che usa «senza avvedersene: prese all’ingrosso, questo ripetersi di frasi e parole e» disposizione di accenti, costituisce il modo di scrivere di un autore e ne «forma V individualità. Verdi nell’Aida ricorda il Don Carlo, A Ballo in ma» schera ed altre sue opere, come Giusti ricorda Giusti in questa ed in quella «delle sue cento robuste ed originali poesie. «— Io aggiungerò: chi non trovò bello, ispirato, originale il pensiero di Bellini, che regge il magnifico duetto nella Norma «In mia mano alfin tu sei? Eppure lo ha identico Beethoven in una delle sue migliori sinfonie.» S’era preteso che Verdi avesse pronunziato l’ultima sua parola col Ballo in maschera. — Meschini noi, che vogliamo sempre anticipare giudizi e sentenze sulla estensione del genio! — Ecco intanto un’altra più sonante e poderosa parola in codesta sua Aida, che diventa adesso la sintesi massima delle sue facoltà musicali. — E non solo; ma io non stimerò di andare troppo oltre asserendo essere dessa, col Guglielmo Teli dell’immortale Rossini, uno dei due più grandi monumenti dell’arte musicale italiana. Le eterne martinicche dell’entusiasmo — come le chiamerebbe il mio ottimo Sunner — si sono sforzate a ripetere: è un’opera, che, per piacere, vuol’essere udita e riudita più volte. — Calunnia! — Si dica codesto di certi colossi ultramontani, che, di primo tratto, non fanno che sbalordirci ed immergerci in una sorta di ammirativo stupore, emergente dal grandioso, dall’incompreso, e non dal bello, ed a cui vi accostumate grado grado, per forza di abitudine, come Napoleone I faceva dell’oppio. Ma codesta Aida piace, persuade, convince, incanta, rapisce, ad una semplice prima ed unica udizione e, se vi lascia nell’animo un ardentissimo desiderio di riudirla, non è già pei’ bisogno di intenderla, ma per disquisirne gustarne tutte le peregrine e recondite bellezze, meglio ancora: per provare di nuovo quelle care, simpatiche e deliziose sensazioni che essa vi ha suscitato nel cuore la prima volta