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138 GAZZETTA MUSICALE DI MILANO f; ‘L i fri H k I | j î ldi Convenga meco T ottimo Filippi che Mazzini è per lo meno un Wagnerista assai tepido se si accontenta di Meyerbeer, di Mozart, di Rossini e di Donizetti. Nè io gli faccio carico di aver fatto violenza alle idee Mazziniane per farle servire alla sua missione. Quando pure non fosse uno de’ soliti miraggi della fede, sarebbe tuttavia uno di quegli artifìci! rettorici da cui nessun apostolo è innocente. E d’altra parte; anche senza la fede e senza l’arte oratoria, è facile incorrere in simili errori quando si vuol cogliere il pensiero d’uno scrittore nei suoi scritti senza alcun riguardo alle condizioni dei tempi in cui furono dettati. È evidente che se i periodi che Filippi ha amorosamente raccolto nella Filosofia della musica di Mazzini per ricucirli dottamente’in appendice, venissero scritti oggi, alluderebbero più veri similmente al Wagnerismo che al finimondo, ma pretendere che quando fioriva la scuola di Rossini, di Bellini, di Mozart, avessero in mente la scuola di Wagner è tal atto di buona fede perdonabile appena ad un apostolo. Filippi ha riportato un frammento di Mazzini, in cui è biasimata la musica italiana d’allora; e conclude inevitabilmente che Wagner ha le stesse idee. Vediamo ora che cosa Mazzini diceva della musica tedesca. «La musica tedesca procede per altravia. V’è Dio senza l’uomo, immagine sua sulla terra, creatura attiva e progressiva, chiamata a svolgere il pensiero di che l’universo terreno è simbolo. V’è tempio, religione, altare e incenso; manca l’adoratore, il sacerdote alla fede. Armonica in sommo grado, essa rappresenta il pensiero sociale, il concetto generale, l’idea, ma senza l’individualità che traduca il pensiero in azione, che sviluppi nelle diverse applicazioni il concetto, che svolga e simboleggi l’idea. L’io è smarrito. «L’anima vive, ma d’una vita che non è della terra. Come nella vita dei sogni, quando i sensi tacciono, e lo spirito s’affaccia a un altro mondo, dove tutto è più lieve e il moto più rapido, e tutte imagini nuotano nell’infinito, la musica tedesca addormenta gli istinti e le potenze della materia e leva l’anima in alto, per lande vaste e ignote, ma che una rimembranza debole, incerta, t’addita come se tu le avessi intravvedute nelle prime visioni d’infanzia, tra le carezze materne, finché il tumulto e le gioie e i dolori della terra, che calpestiamo, svaniscano. «È musica sovranamente elegiaca: musica di ricordi, di desideri, di melanconiche speranze e tristezza che non possono aver conforto da labbra umane: musica d’angioli che hanno perduto il cielo, e v’errano intorno. La sua patria è l’infinito, e v’anela. Come la poesia del Nord, quando almeno non è sviata da influenza di scuole straniere e serba l’indole primitiva, la musica germanica passeggia leve leve su’ campi terrestri, e sfiora il creato, ma cogli occhi rivolti al cielo. Diresti non appoggiasse il piè sulla terra che per lanciarsi. Diresti una fanciulla nata al sorriso, ma che non ha trovato un sorriso che risponda al suo, piena l’anima d’amore, ma che tra le cose mortali non ha trovato cosa che meritasse d’essera amata, e sogna un altro cielo, un altro universo, e in quello una forma, la forma dell’ente che risponderà all’amor suo, al suo sorriso di vergine, ch’essa adora senza conoscerlo. E quella forma, quel tipo di bellezza immortale, appare e riappare a ogni tanto nella musica tedesca; ma fantastica, indeterminata, pennelleggiata a contorni. E una melodia, breve, timida, disegnata sfuggevolmente; e mentre la melodia italiana definisce, esaurisce e t’impone un affetto, essa lo affaccia velato, misterioso, appena tanto che basti a lasciarti la memoria e il bisogno di ricrearlo, di ricomporre da per te quella imagine. L’una ti trascina a forza fino agli ultimi terznini della passione, l’altra t’accenna la via e poi ti lascia. La musica tedesca è musica di preparazione, musica profondamente religiosa, bensì d’una religione che non ha simbolo, quindi non fede attiva e tradotta nei fatti; non martirio; non conquiste: ti stende intorno una catena di gradazioni maestramente annodate; t’abbraccia d’un’onda musicale d’accordi, che cullandoti ti solleva, sveglia il core, suscita la fantasia, suscita le facoltà quante sono: a qual prò?» 0 m’inganno, o Wagner non sottoscriverebbe, come afferma Filippi, a questa pagina di Mazzini, perchè nessuno, degli ammiratori dell’avvenirista seppe mai fare elogio alla sua musica se non (più ampollosamente) in termini uguali a quelli che Mazzini adopera per combatterla. E mentre il ridicolo che sparge sulle formule melodrammatiche della scuola italiana, oggi non ha più ragione di essere, a questo biasimo della musica tedesca non è da mutare una virgola. Wagner, a questa stregua, non ha fatto un passo; ha portato la musica sinfonica del suo paese sulla scena, nulla più; vi è il divorzio dalle forme viete del melodramma, ma vi è l’eccesso opposto; mancano le formule, ma manca pure l’intento, e il connubio tra l’individualismo italiano e il socialismo tedesco, è ritardato anzi che compito dalla scuola Wagneriana. Per il quale connubio, e con ragione, Mazzini ebbe l’occhio all’Italia, che infranse le vecchie leggi e creò oggi un melodramma dove la finzione riesce meglio all’efficacia del vero, senza snaturare il carattere della musica. E Wagner, per chi guarda bene agli intenti mazziniani, è l’ultimo uomo che possa tradurre in pratica le idee sul melodramma. La scelta stessa degli argomenti su cui egli si piace tessere le sue profezie musicali mostra la natura mistica del suo ingegno, che pure è incontrastabilmente poderoso; Mazzini voleva fare d’ogni melodia un’azione, d’ogni melodramma una missione; 7 O 7 Wagner non crea che fantasmi, invece di agire sogna. Mazzini abbatteva il vecchio Olimpo letterario, che isteriliva il pensiero in contemplazioni vuote, che affogava il cuore in sentimenti menzogneri; che fa Wagner? ricostruisce l’edifìzio in note; sono ancora gli Dei, i semidei, le ninfe, le Driadi, i cigni; è il fantastico, non è il drammatico e molto meno la generosa utopia sociale di Mazzini. Ma queste brevi considerazioni, che non hanno bastato a trattenere l’egregio Filippi dal fare di Mazzini un suo fratello in wagnerismo, sono indubitabilmente già troppo lunghe pei miei lettori. ARINA.: iMVv

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AL TEATRO REGIO DI PARMA Più d’un’apposita corrispondenza, ei pare opportuno, a dare un’idea esatta del nuovo trionfo dell’ultimo capolavoro di Verdi, ed a provare la scrupolosa fedeltà del nostro telegramma pubblicato nel passato numero, riprodurre i giudizi! della stampa parmense. Pr ima Rappresentazioìie. La Gazzetta di Parma scrive: «Il primo atto procacciò vivi e reiterati applausi al tenore signor Capponi (Radamès) per la sua cavatina Celeste Aida!, al mezzo soprano signora Waldmann (Amneris) ed al soprano signora Stolz (Aida), che venne salutata con entusiasmo al suo primo mostrarsi. Lo scenografo cav. G. Magnani venne evocato all’onor del proscenio per una scena figurante l’interno del tempio