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GAZZETTA MUSICALE DI MILANO |
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Venezia, 4 gennaio
Fedele alla mia promessa eccomi ad informarvi dell’esito
della Norma al teatro Camploy ed a rendervi conto in genere
degli altri spettacoli presenti o di là da venire.
La. sera di Natale, il Camploy, in relazione alla modesta sua
capacità, presentava uno spettacolo grandioso. I palchetti rigurgitavano
di signore, la platea era un mare in burrasca, il loggione
era un pandemonio. Tutta quella gente vi si era portata
con grande aspettazione, e tanto questa grande aspettazione,
come la ressa eccessiva, gravitarono in sfavore dell’esito. —
V’ha un’altra circostanza della quale si deve tener conto, ed
è che T impresa della Fenice, nella tema di un successo eclatant,
si sarà mossa, o, per adoperare un verbo mazziniano, si
sarà agitata.
Il fatto si è che la Ferni sola, quantunque anche in quella
sera sia stata festeggiata, avrebbe meritato un’accoglienza
più cordiale. L’Angeleri (Adalgisa), che, quantunque giovane,
pure è una vecchia conoscenza per Venezia, avendo cantato
qui nove anni or fanno nelle Precauzioni ed in Tutti in maschera,
venne accolta con freddezza, con troppa freddezza. —
L’Aramburo ( Pollione) venne tollerato, e con tutta ragione,
perchè rispetto a modi di canto ed a scena, è qualche cosa
di inqualificabile. Peccato che la voce sua bella, estesa, eguale
e potente, non sia posseduta da un’intelligenza migliore. Mi
vien detto che nella Favorita, che si sta provando adesso egli
sia tutt’altra cosa, ma voglio udirlo e vederlo per credere. È
vero, verissimo che la Norma è uno scoglio per tutti i tenori
dei nostri giorni, che hanno abituata la voce ad altri registri;
ma non credo, se non odo e se non vedo, che T Aramburo possa
cannare come va cantata la romanza:
«Spirto gentil «Il Melzi (Oroveso) non ha voce da basso profondo, nè da
basso baritono: ha una voce gutturale anfìbia, e, rispetto a modi,
lasca molto ma molto a desiderare.
Dìi cori e dell’orchestra non giova occuparsene, di proposito:
i C0’i sono composti di gente per lo più raccolta tutt’altro che
in teatro, e 1 orchestra, tranne rare eccezioni, è composta allo
stesso modo.
Ntn posso però chiudere la mia relazione del Camploy senza
dire un’altra parola. Un giornale cittadino ha trattato con assai
poca cavalleria la brava Ferni Carolina, dicendole che ad
un’artista come lei, incombe l’obbligo di ritirarsi a tempo dalla
scena per rispetto alla fama gloriosa acquistatasi. Se la rude
censirà fosse partita da qualche giornalaccio, non varrebbe
inveir* la pena di rintuzzarla; ma essendo partita invece da un
giornde che diede sovente, e dà tuttodì prove di onesti sentimenti
e di modi cortesi, credo doveroso di rispondere, riassumendc
da fonti attendibilissime alcuni dati in argomento, dati
che virranno a dimostrare che quella censura oltre all’essere
scortes era anche ingiusta.
Il Rgli, erudito, distinto ed accurato scrittore di cose teatrali
dee: «Virginia Ferni, la maggiore, è nata nel 1840 circa
e Caroina due anni dopo:» Se lo spazio mel permettesse vorrei
riportavi qui, desumendola dai diffusi cenni del Regli e di altri,
T inter, vita artistica di queste due sorelle che, da parecchi anni,
e Col volino e colla voce deliziavano il mondo; non posso non
riporta® però un brano che le sintetizza con vera magistrale potenza.
c Carolina Ferni, scrive il Regli, è l’ardore della passione, ’energia, il calore, la fantasia, la vigoria; è;1 fuoco
del cieb d’Italia, come la sua sorella ne è la voluttà seducente,
la grazu insinuante, e tenera. Riepiloghiamo. Virginia è lo stile
personifcato, la correttezza, il sentimento; Carolina s’ispira al
capricci! senza freno, è la foga indomabile e febbrile. L’una è
l’angelo del suo strumento, l’altra ne è il demonio.»
Questi giudizio splendido e giusto sulle sorelle Ferni, quali
suonatrid di violino, si può estenderlo anche come artiste di
canto..., na qui non istà la questione ammesso che il Regli, rispetto
afìetà, sia stato un po’cavaliero, ma quand’anche la Carolina
av.sse 35 anni, si dovrebbe ritirare dalla scena! Dante
che a 35anni credeva d’essere: nel mezzo del camin di sua
vita, non dovrebbe permetterlo.
Se precìdessimo di questo passo, quante e quante donne e
ben al diatto del valore artistico della Ferni, dovrebbero abbandonacela
scena! Ma su ciò basta. — Alla Fenice andiamo
di male in peggio. Si studia la Luisa Miller, opera assai bella,
ma che adimanda una interpretazione accuratissima. Sabbato
prossimo pi vi sarà la prima rappresentazione e ve ne farò
conoscere ’ esito per telegramma, aggiungendovi una parola
anche sulk Favorita che andrà in iscena sabato al Camploy.
Di Jone ion se ne parla più e sta bene. Il tenore Bicchielli
che veniva scritturato per questo ultimo spartito, venne protestato
prima di cantare. Il poveretto ha ragione di lagnarsi contro
l’impresa e contro la presidenza, come egli fa, sui giornali
a mezzo di comunicati. La Presidenza e l’impresa hanno il torto
di averlo scritturato: nel resto ha ragione lui.
Lunedi si diede spettacolo alla Fenice senz’opera: vi si rappresentò
il ballo e furono suonate due sinfonie: Semiramide e
Mignon. Il pubblico si è mostrato contento, e beato lui! All’Apollo
la compagnia Moro-Lin fa buoni affari con un repertorio di commedie
in dialetto che, tranne poche eccezioni, dovrebbe andar
posto al rogo. Tali sono le indecenze, le scurrilità più stomachevoli,
che contengono, che se il pubblico avesse un po’ di
rispetto per sè stesso, le fischierebbe senza pietà. Si deve far
ridere coi sali arguti, colle facezie spiritose, non a quel modo!
È deplorabile che la stampa cittadina non abbia una parola di
biasimo.
Al Malibran i Chiarini attirano la folla colle loro pantomime
e coi loro salti.
p. y
Parigi, 3 Gennaio.
Avevo in mente di farvi in questa mia d’oggi una rassegna
retrospettiva dell’annata teatrale 1871; ma veramente non mi
è bastato T animo di appiccicare quest’epiteto «teatrale» al
funestissimo anno che è finalmente terminato. Del resto, il più
difficile non era di farne l’inventario, almeno per ciò che concerne
le scene musicali. Poco o nulla da mettere all’attivo. Anno
perduto per l’arte. Speriamo che il novello ei ricompensi di quel
che ei ha fatto perdere il suo predecessore.
La lieta novella che ei ha recato il telegramma accluso nell’ultimo
numero della vostra Gazzetta Musicale è stata qui
universalmente riprodotta. Il tanto felice successo VAida è ormai
noto da un capo all’altro della Francia. Non era sì facile far
il viaggio nella contrada egizia per andare ad assistere alla
prima rappresentazione della nuova opera del Verdi; ma più
d’uno qui si promette di recarsi a Milano quando Y Aida sarà
data costà. Aspettatevi anche alla visita di qualche direttore di
teatro. Ne conosco due almeno che non mancheranno.
Cosi il teatro italiano di qui fosse aperto! potremmo sperare
di veder mettere in iscena Y Aida immediatamente dopo che
sarà data a Milano. Se la scena non è abbastanza ampia alla
sala Ventadour pel grandioso spettacolo, quella della città egiziana
non è mica grande; sicché se le proporzioni troppo limitate
del palco scenico non sono state un ostacolo là, noi saranno
neppur qui... Ma a che vai parlare di ciò, quando nulla è ancora
risoluto per la riapertura del nostro teatro italiano.
Una combinazione s’era presentata, ed era stata sottomessa
all’approvazione ministeriale, cioè di aprire il teatro con una
doppia compagnia, francese ed italiana. Il Lunedì, Mercoledì e
Venerdì si sarebbe data l’opera italiana, e gli altri tre giorni
intermedi, la francese, o quelle delle opere italiane che sono
tradotte in francese, come il Barbiere, Norma, la Sonnambula,
il Trovatore, Rigoletto, la Traviata, Un Ballo in maschera. Crispino
e la Comare, ecc., ecc.
I professori d’orchestra sarebbero stati gli stessi per l’opera
francese e per l’italiana. E vi sarebbe stato spettacolo ogni sera,
salvo la domenica, che avrebbe potuto dar luogo a qualche rappresentazione
straordinaria, fuori appalto, a prezzi diminuiti.
Ma, per ora almeno, il Ministero non ha nulla deciso, non
trovando convenevole questa miscela dei due generi. Forse non
ha torto. Sarebbe fondere il teatro lirico nel teatro traliano, far
dei due teatri un solo. Si guasterebbe questo, senza salvare
quello. Oltre di che la stagione musicale è già molto innanzi,
e mancherebbero artisti atti a rilevare il Teatro italiano,
già troppo in decadenza. Da altra parte, il tenerlo chiuso non è
già troppo decoroso per una capitale come Parigi. L’imperatore
del Brasile, che ama molto la musica italiana, è stato molto
sorpreso di non trovarne. Avvi un teatro d’opera a Rio Janeiro
e non averlo a Parigi.
In mancanza di un teatro italiano, abbiamo un compositore
italiano, il Ricci. Non è quistione che di lui, non si parla che
delle sue opere. Egli si moltiplica; mena di fronte le prove della
Festa a V enezia A Teatro lirico o Ateneo e quelle della Dogaressa,
al Teatro dei Bouffes-parisiens. A proposito il titolo di
quest’ultima, come vedete, è stato cambiato. Era le pendu,’, l’autore,
del libretto ha pensato che per un’opera buffa il titolo
«L’appiccato» parrebbe troppo lugubre, e l’ha mutato in quello
che ho scritto più su. Da esso comprenderete che la scena ha
luogo a Venezia, come nell’altra opera. Or dunque il maestro
Ricci, va al mattino a dirigere le prove della Festa a Venezia,
all’Ateneo, e nelle ore pomeridiane a quelle della Dogaressa ai
Bouffes. Non trova un momento per far colazione. Lo vedreste
entrar in Teatro, con una mano in tasca e tirando a quando a
quando un pezzetto di biscotto per portarlo alla bocca. Credereste
che prenda qualche pastiglia per la tosse, errore. Fa cola