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114 GAZZETTA MUSI cosa è semplice, ma è cosi, e l’effetto è garantito. Ad uno che batta le mani in un palco di quarta fila, rispondono invariabilmente venti applausi dal quinto ordine, cinquanta dal loggione, e tre dalla platea, nè uno più nè uno meno. Ora tutti sanno a memoria che per fare un successo splendido alla Scala occorre 1 applauso dal quarto ordine, 20 dal quinto, 50 dal loggione e 3 dalla platea. E a chi non lo sapesse lo insegna il coscienzioso cronista del Cosmorama. Rivista Milanese Sabato, 6 aprile. La stagione di quaresima si chiuse il di di Pasqua coll’Az^; quest ultima rappresentazione fu occasione di grandi feste a tutti gli esecutori. Espongo fatti. Alle signore Stolz e Waldmann furono offerti enormi mazzi di fiori, ricchi nastri, corone d’alloro; Fancelli ebbe pure la sua corona d’alloro, e l’ebbe pure il maestro Faccio; e dopo l’opera tutti ebbero acclamazioni e chiamate entusiastiche. Altri fatti. Le 24 rappresentazioni deH’4z4a diedero un introito di L. 184,941 20. Evidentemente scrivendo 200.000 lire nel passato numero io sono stato inesatto e a quest’ora vi è certo chi ne ha fatto l’osservazione. Infatti io non aveva tenuto conto degli abbonati che sono un migliaio circa e che hanno pagato in media cento mila lire per 60 sere, vale a dire circa 45,000 lire per VAida, e poi ho anche taciuto degli incassi del loggione, sui quali bisognerebbe fare lo stesso calcolo di proporzione. Non ei è dubbio di sorta, io sono stato inesatto; dove è detto che le rappresentazioni delTAfcta hanno fruttato all’impresa circa 200,000 lire, bisognerà leggere invece circa 250,000. Ma chi sa se gli amanti dell’esattezza troveranno meglio il loro conto? Ora che la stagione è finita e che la Scala è chiusa incominciano le dicerie intorno alla.riapertura. Fortunatamente che il voto del Municipio venne presto a troncare un altro argomento di ciancie assai più tediose che necessarie. Parlo della dote alla Scala che fu concessa senza contrasti. A chi volesse trovare un conforto degli spettacoli della Scala, il Politeama al Tivoli offre V Aroldo di Verdi e il ballo Anna di Masovia del Rota. TP Aroldo è più noto nelle provinole che in Milano, ove non ebbe che una cattiva interpretazione, molti anni sono, al Carcano. È opera ricca di melodie, di situazioni drammatiche, e ha un’impronta di grandioso e di magistrale nelle forme. È lo Stiffelio accomodato ai rigori della censura di altri tempi, con un libretto ricostruito malamente ad uso di altri personaggi sul telajo degli stessi affetti. Il carattere sacro del protagonista primitivo è passato a forza nel crociato Aroldo; quel guerriero che leva sempre gli occhi al cielo, anche quando commuove, ha sapore di ridicolo; lo si vorrebbe più guerriero che crociato, ed egli è invece meno crociato che crocifero. La musica che assoggetta le sue prime intenzioni al nuovo libretto è tiranneggiata e tiranna allo stesso tempo; ciò apparisce chiaro più d’una volta e specialmente nella stupenda preghiera dell’atto quarto. Non ostante questi difetti estetici, che a parer mio dovrebbero consigliare il ritorno di questo poema musicale alla sua prima impronta di Stiffelio, cosi come è, apparisce un lavoro colossale, ispirato da cima a fondo, e pieno di bellezze melodiche ed armoniche straordinarie. 11 pubblico del Politeama mostrò di gustarle immensamente non ostante l’esecuzione per molti riguardi infelice. E fu infelice più per mancanza di studio che per insufficienza assoluta degli artisti, i quali non dirò che sieno aquile, ma non appartengono nemmeno a certa classe proverbiale di quadrupedi canori. Certo il soprano (MiiTa) ha molta inclinazione ALE DI MILANO alle stonature e riesce spesso a indurre in tentazione anche i suoi compagni; certo il tenore, (Aroldo) canta più spesso in chiave di catarro che in chiave di tenore; ma non possono dirsi artisti biasimevoli. Il soprano quando non stona (pur troppo le accade di frequente) fa pompa di voce non ingrata, nè fioca, nè insufficiente, è il tenore quando si slancia sugli acuti ei sta da acrobata valente, sicuro del fatto suo; e sa essere caldo, appassionato e perfino soave nell’accento. Le parti di Briano e di Egberto erano affidate al basso Mazza che gode buona riputazione e la merita e al baritono Viganotti, l’àncora di salvezza degli spettacoli che stanno sotto il mediocre. A quest’ora ho già visto più d’una nave sdruscita tirata in porto da questo bravo baritono; e per essere giusto devo aggiungere l’Aroldo ai casi di salvataggio che lo additano alla riconoscenza del pubblico. Egli cantò tutta la sua parte con passione e con vigoria, e nella cavatina dell’atto terzo riuscì a portare la tepidezza del pubblico alla temperatura dell’ebullizione. Gli altri esecutori ebbero qualche momento buono, in cui furono applauditi; ma molte bellezze furono storpiate, e in quasi tutti i pezzi concertati, cori, artisti, e orchestra parvero gareggiare nel non intendersi mai. Il pubblico ebbe intervalli di collere frenate, momenti di malumore palese, e momenti di entusiasmo. Tale la fisionomia della prima rappresentazione Nelle successive le cose andarono su per giù alla stessa maniera. Il ballo Anna di Masovia del coreografo Rota ebbe al contrario un successo straordinario a bella prima. Piacquero i ballabili, benché le linee del disegno si confondano, per la strettezza del palco scenico, in un via vai incomprensibile; piacque il passo a due danzato dalla coppia Didan-Conti, piacque un grazioso passo a tre umoristico, piacque il meccanismo, piacque la prima ballerina signora Didan, insomma piacque tutto. Tutto, vale a dire anche la parte mimica; anzi questa piacque più della parte danzante un po’ per merito del Rota, il solo che sapesse far interessare il pubblico alle passioni da sordomuto dei balli, e un po’ anche per merito del mimo Catte e della mima signora Mezzanotte; quest’ultima ebbe momenti in cui si rivelò vera artista. Il pubblico messo di buon umore fece ripetere il passo a tre umoristico, chiamò alla scena il coreografo Bini riproduttore del ballo, la mima Mezzanotte, il macchinista, il primo ballerino, ecc., ecc. Aggiungiamo che la musica, una delle meglio riuscite del dall’Argine, è briosa, vivace e aggiunge anzi che togliere anima alla parte coreografica. In fatto di spettacoli musicali, oltre Aroldo, non abbiamo avuto che la Vie Parisienne e Le Chateau à Toto di Offenbach al Re (vecchio), dove la compagnia Meynadier recita da parecchie sere. La Vie Parisienne è uno dei vaudevilles più ameni e più scamiciati di Offenbach; gli artisti della compagnia Meynadier lo interpretano con molto garbo e il pubblico si diverte un mezzo mondo. Le Chateau à Toto appartiene alla stessa scuola; come buffoneria è assai poco riuscita, come musica è gettata sul solito stampo. Il teatro Milanese ei ha dato un’altra novità: I tribuleri del sur Spella parole e musica d’un anonimo. Piacquero i primi due atti, per certe scene ben immaginate e per la vis comica del dialogo; piacque sopra tutto la musica che è ben fatta sempre e spesso originale. I pezzi più applauditi furono il finale del primo atto e la canzonetta delle sartine nel secondo. Gli ultimi due atti piacquero poco. Con alcune modificazioni il successo potrà farsi intero. Intanto, poiché tutti ripetono il nome dell’anonimo autore, lo ripeterò anch’io: Raffaele Parravicini.