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) Verdi, il quale, per ciò che a noi sem| bra, non potrà nescire che luminoso, lo, diciam francamente, fin da quest"’ora noi J ci sentiamo fortemente inclinali ad encomiarlo, prima perchè il crediamo frutto degnissimo del valente intelletto che lo ha creato, secondo perchè è opera, a cui insieme al naturale ingegno han posto mano lo studio, l’amor dell’arte e il desio di ben fare. Noi, lo dicemmo più d’una volta, siamo grandemente amici dello studio. Lodare in Italia l’istinto musicale è come vantare il bello spirito in Francia, il genio della speculazione in Inghilterra, la fermezza d’animo in Ispagna: è come lodare i frutti indigeni d’un suo paese, i quali d’ordinario perdono del loro pregio perché tutti ne posseggono alcuna quantità. Perciò siam di preferenza inclinati ad onorare sovra il talento lo studio, siccome prerogativa che ne’compositori italiani con minor frequenza si rinviene, e perchè in esso veramente sta il merito della lode, poiché i prodotti suoi non possono acquistarsi senza grave e penosa fatica, quando l’altro non è che un dono della natura. E vero che il voto clamorosissimo manifestamente spiegato dal pubblico alla prima rappresentazione fu alquanto più favorevole di quello che taluni degli intenditori accorsi all’ultima prova avevano con qualche riserbo professato; ed è altresì vero che un incontro sì raro, sì straordinario, sì universale in un tempo che, schiettamente parlando, ancora non eransi potute ben comprendere le bellezze del lavoro, le quali per loro natura dovean essere riposte, siccome figlie di accurata elaborazione, vuol riguardarsi dal savio_giudizio umano non solo come l’effetto dell’intrinseco suo valore, ma come una conseguenza di una particolare predilezione del pubblico verso il bravo compositore. Una tale predilezione il maestro Verdi se l’é acquistata così co’ suoi artistici talenti che l’han reso uno de" più distinti sostenitori del nome musicale italiano, come per le morali qualità, per l’ingenua modestia di cui è dotato e lo rende alieno da qualunque maneggio, da qualunque briga di ciarlataneria, clic sì di sovente vengono ad usurpare il premio riserbalo al vero merito. Tutto intento alla coltura dell’arte 011d’ella abbia a procedere per la via dell’incremento a quel grado di elevatezza a cui è predestinata, non vede nel inondo che una famiglia d’innocenti, scevra d’invidia e di male passioni; nè pensa che sia mestieri di mezzi artificiosi per far risplendere l’ingegno: perciò egli non ha contrarj che coloro che lo invidiano. Separata del resto l’opera sua da tutte queste favorevoli condizioni, che senza dubbio debbono aver giovato al suo "apparire, e ridotta alla semplice nudità del vero, noi crediam d’avere argomenti non dubbj fier asserire che rimarrà pur sempre un avoro il quale vieppiù alzerà in fama l’autore, e sarà non degenere fratello del Nabucco. le cui maestose e grate armonie han per sì lungo tempo dilettato il pubblico milanese. Come più o meno avea già fatto nei suoi parti anteriori, anche in questo spartito, abbandonando quel, leggero carattere che ha pregiudicato per tanti anni la mu5 sica italiana, ha con saggio accorgimento? accoppiata la grandezza delle armonie alla 1 fluidità e naturalezza delle melodie: ab| bandonando il falso gusto degli ornati e delle fioriture,non rivolse l’arte che a significare ed esprimere la drammatica verità: lasciando le complicazioni dei mezzi materiali, ebbe fermamente di mira di ricondurre il canto alla sua nativa semplicità, alla seducente purezza del linguaggio musicale, nella qual cosa egli adopera una peregrina suppellettile di scienza ed una bella e fertile immaginazione, mercè le quali, mentre alletta, commove e sorprende, soddisfa nello stesso tempo ed appaga le pretensioni della scienza. Dimostrandosi compreso delle esigenze del gusto pubblico e del naturale progredimento dell’arte che d’epoca in epoca porta con seco forme di circostanza e tinte di convenzione, armato di quell’energia che cammina sopra gli ostacoli e divien più gagliarda, anziché affievolirsi, qualora gl’incontra, sì bene fa rivivere e sposa l’antica semplicità dei modi al moderno raffinamento che il suo metodo può dirsi, se non il migliore, certo uno de più meritevoli di lode. La sua musica è piena del carattere del soggetto:, pieghevole e svariata secondo le varie modificazioni delle parti; chiara nei dettagli come nell’insieme; logica nelle degradazioni; filosofica e fina nelle intenzioni; a tempo lieta, a tempo melanconica, a tempo soave, a tempo terribile; a tempo focosa, a tempo pacata, sempre dignitosa, sempre energica, sempre nobile, sempre saggia. Può dirsi un composto talora delle splendide idee di Rossini, talora delle drammatiche di Bellini, senza possedere per altro la vena originale dell’uno, e senza il colore esimiamente espressivo dell’altro. È una similitudine di quella di Mercadante: anzi di Mercadante, se non erriamo, ne sembra che tragga gran parte del carattere, senza averne la soverchia artificiosità, e senza la prolissità che sovente lo raffredda. Ma del suo modo di comporre e del suo stile fu già abbastanza ragionato in queste colonne dalla penna d’un nostro collaboratore al tempo che sortì in luce il Nabucco. A ciò che fu allora stampato non sapremmo ora che aggiungere se non che ripetendo le stesse cose. Perciò ci faremo piuttosto a dare un’idea dell’opera onde il lettore n’abbia qualche contezza, proponendoci di fare quelle piccole osservazioni che ci parvero conformi ad una sana estetica e puramente dettate dall’amore dell’arte. L’opera incomincia con poche battute d’orchestra eseguite a tela calata. L’oramissione della sinfonia diede ad alcuno motivo di lamento, perchè il maestro Verdi ci aveva dolcemente allettati con quella che pose innanzi al Nabucco. A noi pare all’incontro che abbia operato con senno, perchè lo spartito, già costituito di quattro parti, e lungo piuttosto che no, sarebbe riescilo più prolisso ancora. Stimiamo che la sobrietà nelle arti che scuotono i sensi sia una virtù da non preterirsi. È una verità conosciuta che quando l’anima è stanca; anche le belle cose perdono del loro prestigio. L’azione è in Milano sulla piazza di S. Ambrogio. S’ode nel tempio una musica festiva, della quale un coro di donne vien chiedendo il motivo ad un coro di cittadini. Questi narrano che Pagano, figlio di Folco, signore di Rò, è ritornato di Terra Santa per riconciliarsi col fratello Arvino, di cui molt’anni innanzi avea attentato alla vita per essere egli stato lo sposo preferit o di Vicliuda, della quale ambiva la mano. Escono dal tempio Pagano, Ai- | vino. Viciinda, Giselda, loro figlia, Pirro, | scudiero d1 Arvino; e Pagano (Derivis) si < prostra sul terreno per chiedere perdono C del suo delitto. Mentre i fratelli si baciano in segno di pace, Arvino è soprassalito da un tremito. Giselda (la Frezzolini-Poggi) e Viciinda gliene chiedon la cagione. Pagano e Pirro se l’intendono ira loro; e qui la Frezzolini intuona un pezzo concertato in tono di si bemolle, di grande e maraviglioso effetto, segnatamente quando pronuncia quel verso: Di gioja immensa ho pieno il core: sul quale la melodia abbandonando il primo andamento s’apre e s’allarga in una frase cosi soave, che dipinge stupendamente tutto il gaudio di un’anima al colmo della gioia. L’effetto poi è accresciuto ancora più dal contrapposto di alcune note basse die Pagano vien dopo susurrando a Pirro dicendo; Pirro, intendesti I - Cielo non ila Che ii associai dal mio furore I è questo un tratto bellissimo. 1 fratelli mostratisi nondimeno pacificati, e propongonsi di volare serrati siccome leoni, - Sugli empi vessilli - che il del maledii A questo punto cantasi un tutti in tuono di re maggiore, allegro mosso, pieno d’energia, pieno di vita, robusto, drammatico, che termina mirabilmente l’introduzione. La scena si sgombra; e s’ode dall’interno un coro di claifstrali a voci bianche interpolato con suono di strumenti che egregiamente imitano l’organo, il quale ha tutlo il carattere religioso e termina insensibilmente in una cadenza piana, piena di verità. Questo coro piacque moltissimo, ancorché la prima sera fosse poco concordemente eseguito. Ritornano quindi Pagano e Pirro che si concertano sul modo d’assalire Arvino; ed ha luogo un’aria con recitativo cantata dal Derivis. Gl’intelligenti riconobbero anche questo pezzo di bella fattura, e di sera in sera venne sempreppiù in grazia del pubblico. L’andante, sebbene a taluno potesse sembrare alquanto basso per le migliori corde del cantante, ne sembra migliore dell allegro perchè favorito e sostenuto da un leggiadro accompagnamento strumentale. Tra l’uno e l’altro tempo cantasi un coro di sgherri, in tono di la, piuttosto affrettalo che è di buona tempra, quantunque non del tutto originale. La scena si cangia, e rappresenta una galleria nel palazzo di Folco illuminata da una lampada. Giselda e Viciinda, temendo un tradimento da Pagano, fan voto di recarsi a piè nudi al santo sepolcro se il cielo preserva Arvino dalle insidie del fratello. Pregano quindi genuflesse amendue e Giselda’ intuona la preghiera della Vergine. È un lavoro pieno di bellezze strumentali perchè le frasi lente del canto sono accompagnate da suoni di clarinetto e di flauto alla maniera d’arpeggio gradevolissimi. Ma la melodia che è un andante mosso in re minore e termina in maggiore è d un filo troppo involuto e diffuso perchè si possa comprendere da un orecchio che sia poco educato all’arte; perciò più d’uno al primo udirla non 1" intende. Verso la fine poi le note non pigerebbero perfettamente { il carattere delle parole. Con tutto ciò * piace pel merito dell’invenzione, e per f l’abilità con che è cantata dalla Frezzolini. (