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da diversi e da taluno, anche col tuono di censura, è anzi pregevolissima cosa in lui, iacchè ogni artista deve studiare i gran7 i, ed anche talora i minori maestri, per trar prò della loro esperienza, ma deve poi aspirare a formarsi uno stile proprio, se non vuol restare confuso per sempre nel volgo servile degli imitatori. Questo stile però il Mabelliui non ha ancora terminato di formarselo, e mentrechè a tanto intende, è duopo, io credo, badi ad alcune cose non indegne di considerazione»-■Cosi mi pare che qualche volta manchi nel cantabile di una certa necessaria ampiezza e spontaneità di forine; che talora i suoi canti sieno di soverchio ricercati; che si noti nei suoi pezzi una certa eguaglianza di fattura, o piuttosto un troppo frequente ritorno a certi modi, a certi passi detti comunemente di effètto, come sarebbero le riprese quasi costanti dei motivi all’ztnisono, o al fortissimo; passi e modi che per tale abuso pèrdono in line ogni effetto qualunque, meno quello di stancare gli uditori e gli esecutori. L’avere io emessa questa opinione al sortire dal teatro la prima sera dopo l’opera in compagnia di un mio buon amico, direttore di uno dei periodici che qui si stampano, fece (forse) che in quel giornale pochi giórni dopo apparisse discussa e confutata, dicendo a scusa del Mabellini aver egli così operato, perchè la debolezza degli organi dei più tra i cantanti dei quali poteva disporre, non gli aveva permesso di ottenere in altro modo che con gli unisoni un forte bastantemente energico. Può darsi che nell’abbandono di un dialogo confidenziale io esprimessi la mia censura con poca esattezza, ma mi pare impossibile che la esattezza fosse sì scarsa quanto poca è la logica che regna nella confutazione o risposta, vera petizion di principio di genere non ordinario. Non consiste essa infatti che nel confessare la giustezza della censura, la esistenza del difètto, se difètto pur è, da me rimarcato. Non tanto censurava io quegli unisoni per sè stessi, quauto per essere stati pel compositore mezzo quasi costante per ottenere delle troppo frequenti sortite o riprese al fortissimo di motivi prima annunziati diversamente; lo che accennai già di sopra a quali non felici risultati conduca. E questi risultati si rendono anche più forti nella presènte opera di Mabellini per un sistema fraternizzante di strumentazione, troppo generalmente carica di fragorosi strumenti, di ottoni in specie (*). Certo che il vizio da me ultimamente notato relativamente alla strumentatura è nù della scuola, anzi dell’opera, che del’individuo; ma gradirei che Mabellini, col buon gusto e (dirò così) il tatto musicale che possiede, sentisse la necessità (1) Non so situare meglio clic in’questa nota la seguente osservazione: in un pezzo quasi tutto di forza fa piacere l’imbattersi in qualche tempo di mezzo o cantabile o parlante: è questo allora come un’oasi clic serve a riposare piacevolmente l’uditore nel suo cammino. Ma se, appena annunziato, quel cantabile o quel parlante s’interrompe con nuovo tuonar dcll’orcheslra, la delusione si fa dolorosa. L’oasi si converte allora in una specie di fata-moryana clic inganna l’anelante viaggiatore con fallace apparenza, dietro la quale gli solleva contro più che mai terribili i turbini di sabbia infuocata, il vento distruttore del deserto. Cosi, per esempio, in mezzo al duetto del tenore e del basso nella prima parte propone il maestro un bellissimo.misterioso parlante, ma non appena l’ha proposto ritornano in campo i soliti scopii di forte che bau dominato lutto il pruno tempo, ed a mio credere ne danneggiano molto il generale effetto. di una riforma in questa parte importantissima dell’arte. Quando l’orchestra altro ufizio non aveva che di sostenere in tuono i cantanti, poca attenzione voleva; ma da quando, per opera principalmente di Jomelli, fu chiamata a prendere una parte più attiva nel melodramma, quando, per far uso della frase del suddetto maestro, cominciò a cantare ancor essa, la cosa cambiò- aspetto, e tanto maggiore interesse andò sempre destando, in quantochè somministra adesso alla composizione buona jìarte del drammatico colorito. Di qui la cura di aumentarne a poco a poco fino a somma non pria sognata il numero dei componenti, di qui l’impegno nell’introdurvi i tanti stromenti che si perfezionarono o s’inventarono oltremonte. Ora è un curioso fenomeno il vedere come, se si eccettui, un cresciuto continuo rumore, al quale il nostro orecchio si è reso ormai per abitudine poco men che insensibile, non vanta la moderna musica italiana di fronte a tanta copia di mezzi una maggiore varietà di effetti di quella che, nella ristrettezza dei mezzi allora posseduti, ne vantasse l’antica. E di ciò è facile trovar la causa nell’abuso generalmente praticato d’impiegare del continuo tutti gli stromenti, niuuo eccettuato, e d’impiegarli combinati presso a poco sempre nello stesso modo. Una volta, fuorché nelle overture, nei pochi pezzi d’insieme che usavansi, e nei punti che richiedevano una gran forza di espressione, mai l’orchestra nnpiegavasi tutta intiera; così, mentre in un pezzo facevansi suonare, per esempio, gli oboe, in un altro tacevano questi e suonavano in vece i flauti traversi, e così via discorrendo. Ora, per quanto meschino possa a noi parere questo sistema^ è un fatto che quelle combinazioni diverse producevano altrettante modificazioni di effetto, che trattenevano con piacevole varietà l’attenzione dello spettatore. Della stessa piacevole varietà si mostrarono sempre studiosi nello strumentare i Tedeschi, e lo si è mostrato tra i nostri sommamente Rossini. Ma dove è ella mai questa varietà negli altri nostri, di fronte alle diciassette o diciotto specie diverse di stromenti che impiegano costantemente, senza risparmiare a chi ascolta gli urli terribili dell olicleide, il cupo clangore del trombone, i colpi della gran cassa, neppure nelle semplici cavatine o nei duetti amorosi? Del lesto se Mabellini patisce un tantino di questa malattia dell’epoca e della scuola a cui appartiene, bisogna però d’altronde convenire che mostra anche un bel possesso del maneggio degli stromenti, i quali sa, quando vuole, impiegare anche in un modo, se non del tutto nuovo, però non comune per certo. Tale è l’uso quasi direi alla Meyerbeer che fa talora dei violoncelli, l’impiego dei clarinetti nella loro ottava bassa, ecc., ecc. Solo mi pare che un poco troppo frequenti si riscontrino nella sua stromentazione le sortite di stromenti da fiato con note picchettate per terze o per seste, e certi trilli e mordenti dei flauti e clarinetti che, accompagnando il canto, destano talora l’idea di un lieto garrir di augelletti più conveniente al carattere della pastorale, o almeno a quello brillante della burletta, che a quello grave e serio della tragedia. Ma, per tornare alla parte intrinseca della composizione, credo di avvertire una cosa relativamente alle cabalette. - Quan " e( tunque sieno in generale brillanti, ve ne sono però anche talune alquanto troppo trite, prolisse e di un gusto un po’barocco anzicheno: tali sono, quella dell’aria di Eleonora nell’atto secondo, e quella del duetto tra Giulia e Fieschi nell’atto stesso", duetto del quale però è bellissimo il primo tempo. - Se per un lato vantano un genere più fiorito di quello di Mercadante, sono però mercadantesche in quantochè l’autore mostra aver posto tutto l’impegno nel farle dotte; per lo che riescono in generale alquanto lambiccate. Relativamente a questo sistema d’indottrinare le cabalette, credo non dispiacerà ai lettori se riferisco un discorso òhe mi fu tenuto qualche anno fa, quando io stesso aveva ancora la mania, non felice per me del pari che per le orecchie altrui, di compor musica, dal primo fra quanti maestri abbiano da lungo tempo saputo comandare all’applauso. È facile intendere che parlo di Rossini, di cui mi duole che la memoria non mi consenta di riferire le precise parole. Cercherò in compenso però, per quanto mi sarà possibile, non tradirne le idee: - «Lo scriver cabalette (ei dunque presso a poco dicevami) non è necessario; per anni ed anni si è fatto musica senza cabalette, e quella musica piaceva. Se ne è poi introdotto l’uso, ed anche questa musica è piaciuta. Ne ciò è strano, sì pel prestigio della novità, sì perchè la forma della cabaletta, essendo facile e popolare, doveva andare a genio al maggior numero. Ora, se per un lato non saprebbesi vedere il perchè si dovesse sempre ed inevitabilmente scriver musica con cabalette, da un altro lato non saprebbe intendersi la ragione per cui la cabaletta dovesse da ora in poi restar bandita per sempre. È però certo che quando voglia usarsene non conviene alterarne la primitiva facile semplicità. La cabaletta è un campo troppo limitato per farvi mostra di dottrina, e tentandolo, mentre non si appagano i dotti, alle pretensioni dei quali si resta troppo inferiori, si scontenta il popolo, al cui gusto queste cabalette indottrinate son troppo superiori e sconvenienti». Se questo ragionamento sia assolutamente vero; se non abbia un carattere musicalmente troppo anti-eccletico; se non trovi qualche mentita in alcune delle bellissime composizioni dello stesso illustre maestro che lo emetteva; sono quistioni che non voglio trattare; lascio che ognuno vi faccia sopra le considerazioni che vorrà; a me però sembra che contenga un gran fondo di verità, e certamente riposa sopra una gran cognizione pratica dell’effetto. Per rappòrto all’armonia ed alla modulazione non saprei dire altro, che nell’opera di Mabellini e l’una e l’altra è in generale assai ricca e forse lo è di troppo. Però, anche gli accordi più ricercati, anche le transizioni le più azzardate, sono ben trattati, son fatte artisticamente. Valgano intanto le soprascritte critiche osservazioni quello che valer possono; è certo però che la musica della nuova opera di Mabellini, oltre al non peccare di plagio, o di reminiscenze, cosa ben rara al giorno in che siamo, merita encomio come coscienzioso lavoro. Se vi si nota qualche menda, il più sovente è per eccesso e non per difetto: bel peccato in chi è tuttavia in sull’esordire! Del resto rivela un pieno possesso per parte dell’autore del tecnicismo musicale; brilla per bella condotta, per nobiltà di concetti