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scuola della nuova segnatura, e questa anzi non far apparire se non se come un’emanazione di codesta Rivoluzione armonica), yèy noi poveretti non possiamo che aggirarci «ancora per entro alla misera e ristretta sfera del nostro vecchio sistema armonico, e perciò non ci è dato lino ad ora che servirci de’ vecchi termini d arte, forse già abiurati dal signor Gambale. Avvertiamo perciò seriamente V egregio Riformatore, che da noi, e seco noi da tutta l’arte musicale attendesi colla massima ansietà la comparsa di questo nuovo Trattato armonico, senza dei quale (nè può essere chi voglia negarcelo ). per quanto lodevole èd ammirabile possa anche apparire agli occhi di taluno codesta Riforma, essa non sarà mai altro ( per servirci delie parole medesime del chiaro Maestro) che una semplicissima ed isolata piene angulaire cT un edificio, che non esiste •, e il qual edificio lino ad ora l’arte non saprebbe neppur debolmente in travvedere con qual disegno sopra siffatta pietra possa innalzarsi. Alberto Mazzucato. II. Solfeggio a dite Voci <li A. Pauserò» (0. Augusto Panseron, professore di canto al Conservatorio di Parigi,, dedicava ultimamente al suo istitutore ed amico Bcrton, parimenti professore nello stesso stabilimento, un’opera col titolo di Solfeggio a due voci composto di 50 lezioni progressive da solfeggiarsi e vocalizzarsi. 11 signor Panseron non attendendo i giudizii altrui, fa egli stesso, nella prefazione di questa sua nuova opera, mille elogj dell’utilità di tale lavoro, e ne dice che studiato codesto libro, l’artista musicale si troverà sicuro non solo dell’esecuzione de’duetti, ma anche dc’lerzctli, quartetti, quintetti, infine di qualunque pezzo d’assieme, il che non è dir poco; e perciò, aggiunge egli, consiglio gli allievi di dedicarsi seriamente a questo genere di musica. In seguito l’autore ne accenna il modo di studio da tenersi nell esecuzione del suo Solfeggio, sì dai soprani, come dai tenori, dai bassi, contralti, e così via discorrendo. Compito lo studio di questi solfeggi, continua il signor Panseron, sarà giovevole d’esercitarsi con de’ terzetti e quartetti, al quale scopo posso mettere in vista la mia opera pubblicata sotto il titolo di liécreations vocales. Dice che da vent anni in qua non ha fatto che insegnare la musica vocale; che diede alla luce metodi per tenore, soprano, basso, baritono, contralto; che questi metodi furono adottati c in Francia c all’estero; che ha pubblicato Va, b, c, musicale, e che finalmente l’anno venturo farà di pubblica ragione un metodo di solfeggio in ogni chiave e con cangiamento di chiavi, dell’importanza del quale egli stesso asserisce essere inutile parlare. Dice ancora di più: vale a dire che fino a questo momento, tutti i solfeggi non furono che lezioni ed esempi d’abitudine, e clic egli il primo (!) risolse il gran problèma di far progredire lo studioso dal cognito all’incognito. Chiude questa modesta prefazione avvertendoci che colla promessa sua ultima opera avrà compiuta niente meno che la sua m issione, avrà raggiunto il suo scopo. e fornito all’arte vocale un corso completo. Di tutte queste meraviglie che ci racconta il signor Panseron, teniamone per buone pur anche una sola metà, un terzo, un quarto se volete, un decimo anche, c vedrete che ne rimarrà sempre in buona dose- ad elogio di quest’opera, che racchiude in fatto molte cose degne d’elogio, in ispccial modo nella ragionata progressività, nell’eleganza c facilità delle cantilene, nella giusta tessitura vocale, nella varietà delle forme melodiche e delle loro combinazioni, c, cosa insolita, anche nella purezza e nell’intreccio contrappuntistico e ad un tempo non pedante sì del canto com’anche degli accompagnamenti. Questi solfeggi insomma vogliono essere caldamente raccomandati alla gioventù studiosa del canto. A. 31. (1) Milano. presso Giovanni Ricordi. SCHERZI. I Virtuosi anticlù e i Virtuosi moderiti. I Virtuosi del tempo nostro che altro sono essi se non se i così detti menestrelli o rainestrieri dei bei primi tempi del medio evo? Vero è però che qualche differenza esiste fra gli antichi e i moderni Virtuosi. I contemporanei di Federico li di Svevia e del re Manfredi cantavano giatis ed amore, e si accontentavano di aver tavola ed alloggio in questo o in quel castello, e di essere guardati con occhio benevolo da qualche Dama dal biondo crine e dal sospiroso petto. Che se talora accettavano qualche regalo dalla muniiicenza dei principi c dei re, creduto avrebbero commettere un atto poco cortese se tosto non lo umiliavano ai piedi della dea del loro cuore. Di solito essi facevano udire i loro melodiosi accenti nel silenzio della notte, al bel chiarore di luna. Viaggiavano soletti, a piedi e senza altro bagaglio tranne la loro cetra, qualche libercolo di poesie provenzali, e qualche pegno di affetto della lor amanza. Mangiavano poco: qualche piccola focaccia con miele, un po’ di mandorle e di uve secche, ecc.} bevevano pochissimo, acqua di fontana o di ruscelletto, e alla festa qualche bicchieretto di vino siciliano. La loro niente non pascevasi che della contemplazione del bello poetico e della metafisica del cuore: essi non consideravano questo basso mondo che come l’ignobile palco scenico della loro gloria; i loro pensieri erano sempre nell’aria, nel cielo, in mezzo alle immagini della più pura e casta bellezza, fra le soavi ed angeliche fantasie dell’amore il più nobile e sentimentale. Una bella composizione poetica, una canzone, una sirventese scritta con armoniosi versi a’ loro occhi aveva maggior pregio di qualsiasi altro tesoro. Un atto di virtù e di fedeltà in amore era da essi apprezzato meglio di qualunque ricchezza. (Quando intervenivano alle leste e a’ tornei che i marchesi od i baroni castellani davano ai signorotti del contado, essi formavano f oggetto della venerazione delle dame e dei cavalieri: le loro parole, i loro alti spiravano sempre la più dolce, la più ingenua virtù. il loro gentile aspetto, la molle lisciatura delle loro chiome innanellate, e delle loro pallide guancie, esprimevano tutto il candore del loro animo unicamente educato alle più tenere e patetiche emozioni. Quanto sono mai diversi dagli antichi i moderni menestrelli ossia Virtuosi! Costoro non si accontentano già della vita poetica. Essi pensano prima di lutto alla parte materiale della loro esistenza, indi se hanno tempo di pensare anche alla intelelluale, bene; se no, poco loro importa. Ed è per questo che quando, dopo avere studiala la professione, cominciano a diventar celebri, volgono il primo pensiero ad ottenere grossa paga; quindi fatta la scrittura, studiano di viaggiare dall una all altra piazza coi migliori comodi possibili, poi attaccano lite cogli osti e coi locandieri se sono mal serviti ili tavola e di letto. Essi vivono come tanti Pascià, si guardano bene dall’esporsi al menomo insulto dell’aria, stanno a letto sino a giorno inoltrato, e, quando si alzano, si avvolgono sino al mento in una grande veste da camera alla turca o alla chinese, si provano la voce tossendo e sputando, bevono acqua calda zuccherata, prendono il caffè od il thè cogli amici, cogli adulatori, e coi giornalisti cortesi, ricevono le visite dei dilettanti più distinti della città, danno qualche occhiatala alla sfuggita o solfeggiano sotto voce la parte dell Opera nuova, escono presso l’ora del pranzo, fanno un giro al pubblico passeggio, salutano i conoscenti con dei cordiali baciamano, poi vanno a tavola, mangiano e bevono allegramente, indi entrano in teatro, si chiudono nel camerino, s’imj piastriccian il viso di belletto, si tingono i capelli, s’imbottiscono le gambe, si pongono la parrucca e la barba posticcia, si avvolgono nella toga romana o nella corazza, e si presentano sul palco a fare di sé meraviglia al pubblico. Essi non pensano, non sognano, non parlano die teatri, che accademie, che paghe, che scritture, che quartali; 11011 hanno vera venerazione che per l’agente teatrale che li mette a posto, per l’impresario che li paga, per l’articolista clic li loda alle stelle anche quando fanno fiasco, per i fanatici che li applaudono e li chiamano fuori, dopo che hanno stuonato alla peggio. Tutto il resto della terra è per essi un vero nulla. Si agitino pure gl’imperi, si scontrino pure in battaglia gli eserciti, le città cadano pure; essi sbadigliano se parlate loro di tali cose, o tutt’al più cantarellando qualche motivetto, interrompono la narrazione dei disastri di Calmi o delle sconfitte di Abd-el-Kader per farvi ammirare una beltà passata di tuono o un si di petto, ovvero per darvi la nuova clic qualche loro rivale è stato sonoramente fischiato. Chiedete a me se questo vivere di spassi, di buon tempo e di spensierataggine, sia il più proprio ad elevare il genio degli artisti alla sua più nobile altezza, e vi risponderò che no. Né anche i più prediletti della natura ponno giugnere a toccare la vera eccellenza nelle arti, se ai sentimenti del cuore, se alle più gentili e recondite facoltà della mente non danno sviluppo ed impulso con quella educazione di spirito e di pensiero che forma gli uomini sommi di tutte le categoriedelfumano sapere. E voi, virtuosi moderili, clic diventando grassi e palfutti negli agi procacciativi a furia di trilli, gorgheggi, e cabalette, e cavatine, e rondò, vi circondate della più densa ignoranza ili tutto ciò che non ha a che fare colla vostra speciale e nuda tecnologia; voi che paghi di saper volare colla vostra voce sui varj registri della scala, di saper filare i tuoni, lisciarli e trillarli, spingere e rattenere il fiato con bel garbo, ecc., voi menestrelli o menestrieri del di d’oggi che, imparata materialmente a memoria la vostra parte, non vi curate per ombra di conoscere lo spirito, di penetrare il concetto poetico del dramma in cui dovete rappresentare un personaggio del quale non avete la menoma idea storica; voi, tante volte salutati esimii ed immortali clic vi pensate ili aver toccato l’apice della musical gloria quando giugneste ad ottenere da un impresario una paga di cinquanta o sessanta mila franchi per anno e coi vostri risparmi poteste porre insieme un bel patrimonio di beni stabili e di effetti bancarii; credete voi di essere artisti veramente sublimi, e di valer meglio dei menestrelli o virtuosi del bel tempo di re Manfredi e di Raimondo Berengario, i quali ben di rado avevano più di cinque soldi in tasca e non possedevano altra ricchezza mobiliaria fuorché il liuto che portavano sempre con sé o la catenella il argento, ricevuta in dono da qualche gentile castellana dilettante di ìomanze provenzali? Per me, in verità ci ho i miei bravi dubbii. B. AD AICIS’I ÙI«KAII MIIiAISESI. © Dp Alcuni ile nostri giornali milanesi hanno pigliato in mala parte i Cenni dati dal signor A. M. nel foglio scorso di questa Gaz- ggN;