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che quella musica non è sì barbara, come altri suppone, e contiene anzi somme bellezze. Non voglio adesso entrare in questione quale delle due si meriti la preferenza-, io starei certo per quella che intesi fanciullo, a cui si stanno congiunte le mie più soavi rimembranze, musica che armonizza colla bellezza del nostro cielo, col tepore delle nostre notti d’estate, colla nostra anima poeticamente passionata, che avida di forti e lunghe sensazioni non si contenta di sfiorare il piacere, e rifugge inorridita dal notomizzarlo scientificamente, ma vuole fruirlo pieno, intero, fino all ebbrietà. Però, non è raro che in quella nostra lussureggiante ricchezza d immaginazione, la parola che la musica drammatica si assume infine di comentare, venga o mal intesa, o spiegata a capriccio, spesso per inesperienza od intolleranza di chi scrive; ma alcuna volta, bisogna confessarlo, per l’onnipotente necessità di servire ad una inveterata abitudine, e al bisogno, non so quanto generoso, di un plauso ottenuto prontamente e dalla universalità. Nel Roberto il Diavolo, che prendiamo adesso come tipo della musica settentrionale, il periodo procede rotto e a salti, ma l’apparente disordine è ordine perfettissimo, quella che sembra bizzarria e confusione è magistero pensato. Il Meyerbeer non versa un torrente di note su quattro parole, non bada che i versi sieuo disposti a quartine o a recitativo-, ma a seconda che le parole esprimono suoni materiali o concetti morali, che gli affetti sono lieti o melanconici, tenebrosi o sereni, miti o furiosi, che il dramma tende ad eccitare la meraviglia, il terrore, la compassione, la musica imita il suono, spiega l’idea, dà forza all affetto e serve potentemente alla situazione drammatica. Ora una musica di sì fatta specie può non piacere, non essere intesa, ma non merita che la si lasci inascoltata o derisa. Seguire fedelmente il senso della parola, acconciarsi a tutte le bizzarrie di questa sovrana del creato, farsi lieta con essa e mesta, e terribile, e supplichevole ed angosciosa, accelerare il cammino, rallentarlo, romperlo, ricominciarlo, non arrestarsi dinanzi agli ostacoli, e riposare quando meno se ne avrebbe di bisogno, è anch’esso un modo di raggiungere molto dignitosamente lo scopo dell’arte. Qui potrei citare a centinaia gli esempi. L’orgia che dà principio al dramma è lieta, pazza e romorosa, e il motivo è ripetuto sovente, perchè nel vivo Eiacere e nel profondo dolore gli uomini anno poche e solenni parole, ripetizione che i più attribuivano a povera fantasia; la ballata del contadino normanno ha la mesta semplicità del canto dei menestrelli; Roberto presenta ad Alice il diavolo, che sotto le spoglie del Beltrame crede suo amico, con una pastorale spirante ingenuità e fiducia, stupendo contrasto fra ciò che ignora l’attore e il pubblico sa,- nel giuoco dei dadi c’è un movimento dei violini, seguito da una volata dell’ottavino che imita perfettamente il suono del mescerli e l’atto del gettarli sopra la tavola. Non parliamo del walzer infernale; pochi pezzi mi paiono più magistralmente condotti. Sarà forse sottigliezza la mia, ma in quel canto del Diavolo, a cui gli spiriti d’Averno fanno l’accompagnamento con due note ripetute, a vicenda e’mi pare espresso il dominio da quell’ente malefico esercitato sopra di essi. Poi tace il frastuono e la musica si fa mite e serena: esce Alice, il genio del bene. Quanta sapienza in quel contrasto! Il bene ed il male scendono nella stessa arena a sfida mortale, e in quel dolce e carezzevole accompagnamento dei violoncelli, nel duetto fra Beltrame ed Alice, lo spettatore presente il trionfo dell’ultima. L’invocazione di Beltrame fra le rovine del monastero è qualche cosa di grande 5 cupa, rotta, in sulle prime, va facendosi sempre più piena di mano in mano che la voce del demonio ha potenza di penetrare gli avelli e sturbare i misteri terribili della morte, poi sul finire un prolungato squillo di trombe scende a destare i cadaveri; quasiché il Meyerbeei per conseguire un pieno effetto, volesse approfittarsi d’ogni popolare credenza. Così quando i fuochi fatui s’elevano e vanno quasi aliando sovra le tombe, la musica è lieve lieve, e sembra che ti accenni a cosa che vola. A me parve anche di sommo effetto quel ripetuto a solo di fagotti, eseguito nel tempo in cui i morti escono lentamente dagli scoperchiali sepolcri. Figuratevi un chiostro abbandonato da lunghi anni, divenuto asilo di gufi, coperto di rovine e di tombe, larve ravvolte nella sindone sepolcrale uscenti di sotto terra, traversanti la scena illuminata scarsamente da un pallido raggio di luna, e vedrete che nulla poteva meglio accordarsi con siffatta desolazione che il suono arido e monotono dei fagotti. E la musica che accompagna, per tutto il rimanente dell’atto, l’azione mimica delle risorte, avrebbe essa potuto in più degno modo sostituire la parola? Chi in quel lieto motivo, che succede al riapparir della luce, non sente la gioja della vita novella a cui quelle infelici si veggono evocate? Chi in quelle carezzevoli note della danza, allorché al sopravvenuto Roberto offrono il nappo della voluttà, non iscorge le lusinghe amabili e i molli vezzi con cui tentano sedurlo? Chi non si commuove a quei lamentevoli e prolungati suoni dei violoncelli, allorché lui rifuggente pregano di cogliere l’incantato ramo che sorge sulla tomba materna? Non parlo del canto di Isabella nel quarto atto: tutto il pubblico ne riconobbe l’alta bellezza col dirlo canto italiano. Anche l’atto quinto potrebbe essere fonte ricca di artistiche considerazioni; il coro dei solitarii cosi mestamente sereno, le preghiere sposate agli accordi dell’organo, le soavissime note elei tenore, e più che tutto il terzetto finale, sono pezzi in cui la novità dell’ispirazione va congiunta ad una profonda maestria d’istromentazione. Ma siccome di questi il pubblico più prontamente e più concordemente assentì la rara bellezza, così reputerei fatica gittata il parlarne. Dunque dai pochi cenni su questa grande ma astrusa creazione torna agevole il comprendere perchè lo spettacolo si avesse una fredda accoglienza, specialmente le sere prime, benché i cantanti ed i cori facessero del loro meglio a procacciarsi il favore del pubblico, e il bravo impresario signor Natale Fabrizzi lo avesse posto in scena con tanta ricchezza di scenario e di vesti e felicità di macchinismo, da emulare ciò che fu fatto nelle grandi capitali d’Europa. Padova 9 ottobre 1842. A. Berli. (t) Abbiamo qui troncato l’articolo, il quale continua facendo vivo rimprovero al giornale di Milano il Pirata per avere accennato alla rappresentazione del Roberto il Diavolo a Padova con parole non imparziali, ecc. Questa appendice polemica a noi parve inopportuna, epperò l’abbiamo ommessa.
NOTIZIE
VARIE. I.». TEATRO AULA SCALA. La sera di martedì ora scorso fu data Èer opera di ripiego la Gemma di Feriy. Ila è questa, dal più al meno, uno dei soliti zibaldoni da repertorio; cavatine, arie, duetti, finale a grande strepito d’orchestra e di banda; poi ancora duetti, arie e duetti, e tutta insomma la solita batteria di pezzi gli uni appiccicati in coda agli altri come meglio viene.... - Ma in questi pezzi, voi tosto mi ribatterete, in questi pezzi quante garbate cabalette, quanti graziosi motivi, che cari accompagnamenti, che belle frasi melodiche! In vero non sappiam negare che di simili pregi di seconda mano la Gemma del sig. Donizetti non sia ricca a sufficienza: e qual’è l’opera del celebre autore dell’Anna Bolena e della Linda di Chamounix che ne manchi al tutto? Qual’è l’opera di Donizetti, anche se la pigliate tra le tante sue di second’ordine, in cui la melodia non si spieghi più o meno gradevole e facile, e in cui lo stromentale non si lessa di amabili andamenti, e di intrecci ingegnosi? In questa Gemma la parte cantabile signoreggia sempre con simpatica eleganza; l’effetto teatrale, inteso al modo che lo intendono i meno schizzinosi, è più o men bene avuto sempre di mira e ottenuto!... Tutto questo vi concediamo... Ma e come vanno poi le cose in quanto a originalità di forme, di pensieri e di locuzioni, a unità caratteristica nel concetto generale della composizione, a giusta rispondenza del senso poetico delle diverse scene col significato musicale dei pezzi, a filosofia di stile nel vocale e nella stromentazione...? Qui, qui è dove troveremmo a fare non pochi appunti se avessimo voglia di sobbarcarci in una lunga dissertazione umoristico-estetico-critica. Ma vogliamo assolverci da questa briga e liberar voi dalla noja che vi cagionerebbe. - Saltiamo quindi di slancio all’esecuzione. La signora De Giulii ha cantato con singolare maestria l’adagio dell’aria del primo atto. Il passo di carattere dell’ultimo tempo fu detto con un po’più di esitazione e di fatica. Ma è sì comune, è sì scolorita l’orditura di quelle frasi, che in verità perdoniamo alla cantante di non aver saputo degnamente ispirarsi. Il finale dell’atto primo andò poco men che sossopra, almeno la prima sera, e noi poi osiamo affermare che, anche con un diverso complesso di parti principali cantanti, la signora De Giulii non avrebbe saputo uscir con onore da quel labirinto di modulazioni stiracchiate e di frasi a tessitura ostinatamente alta e forzata W. Questo preeiudicievole vizio invalso nello scrivere de’compositori italiani dell’epoca in cui prese voga e venne abusato il così detto genere tragico-lirico, è molto sentito nella Gemma, e più. che tutto nel secondo atto in cui, credendo di ubbidire alle violente situazioni drammatiche e di dipingere con vigore le passioni recale dal poeta a una specie di parossismo, il maestro non avvisò che suppliva alla povertà di vera e buona e moderata espressione tragica, con una dizione musicale tutta a sforzo di voci acute e per conseguenza fatta a bella ap(1) Osiamo aggiugnere che questo finale del primo atto della Gemma e ordito e concertato con molta negligenza e difetta di chiari sviluppi e di corretto disegno nelle parti e nel tutto. In alcuni momenti di alla importanza drammatica, l’istromentalc procede con movimenti saltellanti e poco men che del genere comico.