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raddoppiare la parte grave a questo stromento, od almeno cercare di dare a' tromboni un basso buono e ben cantante, come se quelle tre parti dovessero figurare scoperte.
Il sistema delle chiavi adattate al trombone gli dà molta agilità, ma alcun poco gli toglie di precisione. Chiaro è che il pezzo scorritoio, obbedendo agevolmente ad ogni minima impulsive, rende (dato che il suonatore abbia fino orecchio) il trombone il più giusto degli stromenti a fiato, e che il trombone a chiavi senza il pezzo scorritoio è da annoverarsi nella classe degli stromenti che hanno l'intonazione stabilita e ferma, a' quali solo le labbra possono portare piccole modificazioni. Sovente pel trombone contralto a chiavi sogliono scriversi soli cantabili. Per questo mezzo una melodia bene fraseggiata può tornare assai dilettevole: intanto errore è quello di credere che affidata ad un vero virtuoso meno dovesse riuscire sul trombone duttile; il sig. Dieppe l’ha fatto molte volte sentire con applauso. Dall’altra parte, ripeto, dall’esecuzione di rapidi tratti in fuori, il vantaggio di una maggior precisione debbe avere la preferenza e molto essere considerato dai compositori.
Gluck, Beethoven, Mozart, Weber, Spontini, ed altri hanno avuto riguardo all’importante parte del trombone, essi hanno assegnato con perfetta intelligenza la pittura delle umane passioni, e la imitazione de’ fenomeni della natura ai caratteri di questo stromento. Per conseguente essi punto non gli hanno tolto della sua potenza, della sua dignità, della sua poesia. Ma costringerlo come fa oggidì il volgo de’ compositori a urlare in un Credo melodie brutali, più degne della taverna che del sacro tempio, a suonare come per l’ingresso d’Alessandro iri Babilonia, quando si tratta d’una capriola d’un ballerino, a marcare accordi di tonica e di dominante sotto una canzonetta che basterebbe fosse accompagnata da una chitarra, a mescere la sua voce olimpica alla meschinella melodia di un duo di vaudeville, al vano romore d’una contraddanza, a preparare nei tutti di un concerto, lo scoppio trionfale d’un oboe o d’un flauto, altro non è che impoverire, degradare un magnifico mezzo stromentale; egli è convertire un eroe in ischiavo o in buffone; scolorire l’orchestra; rendere insufficente, inutile tutta la progressione ragionata delle forze stromentali; egli è un rovinare il passato, il presente e l’avvenire dell’arte; egli è finalmente un volontario atto vandalico, o una manifestazione di niuno buon senso e di tutta stupidità.
E. Behlioz.
(Vers. di C. Mellini)
DEGLI ARTISTI
MELODRAMMATICI.
Furono in queste pagine già toccate le cause per le quali l’arte della musica venne a' dì nostri ad una fase di decadimento. Alcune ci parvero in persuadevol modo discusse; altre per la moltiplicità delle materie appena sfiorate. Tra queste vuol essere primariamente annoverata l’ineducazione artistica de’ virtuosi, la capitale loro inscienza, la vanità, la presunzione, e le ventose pretese con che si rendono spesse volte ridicoli, non pure nella comune società, ma ben anche nel breve circolo del loro mondo teatrale.
V’hanno tra gli uomini degli uomini, i quali stimano sè stessi costituiti d’una creta di cui tutti gli altri npn furono costrutti. Chi penetrasse ben bene nell’animo loro direbbe ch’essi discendono sulla terra per vivere tra la terra e le nubi. La stirpe de’ virtuosi primeggia tra queste privilegiate generazioni; e basta per costoro avere un gorgozzule sonante ed una laringe ben formata perchè facilmente si persuadino che tutte le virtù, tutte le più pregevoli prerogative si raccolgono nel loro fortunato corpicino, come in un luogo di predilezione. Una voce sonora tiene il posto in essi dell’ingegno, dello studio, della coltura, dell’inspirazione, della civiltà, e soventissime volte persin del buon senso. Una bella voce vale una celebrità, una gran fortuna, una ricchezza; essi facilmente si convincono che tutte le grandezze, gli onori, i favori di questo mondo sono fatti per loro. A che giovan dunque gli studj, le meditazioni, le fatiche, le discipline? Sciogli la tua voce, dicon fra sè medesimi, e udrai i rumori dell’entusiasmo colpirti l’orecchio ed inebbriarti l’anima di compiacenza. L’oro verrà dopo le dolcezze, degli applausi; e in questa vita ove tutto è vanità e miseria tu solo avrai la sorte di godere di una felicità reale a cui nessuna delle umane condizioni potrà paragonarsi.
Vale dunque una voce per tutto; ed invece di educare lo spirito all’intima comprensione di ciò che imprendono a trattare, anzicchè nobilitare la mente ed il cuore a quelle squisitezze di sentimento che sono il vero principale elemento di un’arte tutta fatta per l’animo, con un cuore incapace di affetti, con una mente incapace d’intelligenza, sognano un bel mattino d’essere artisti, e vengono nella grande società a chiedere ricchezze, onoranze, festività, distinzioni, come se nelle loro mani serbassero la felicità de’ loro contemporanei. Coloro che negli andati tempi recarono l’arte italiana a quella elevatezza d’onde i presenti tanto sono discesi, pensarono che l’attore melodrammatico non potesse meritamente guadagnarsi un tal nome senza una perfetta conoscenza della musica, senza un indefesso studio del canto, senza un lungo esercizio e tirocinio che rendesse la voce atta a superare qualsiasi difficoltà di modulazione e l’occhio esperto a rilevare a prima vista qualunque immagine scritta, così nei passi che l’anima della melodia ajuta ed agevola la lettura, come in quelli che il cantante è abbandonato alla propria esperienza, perchè costretto a freddamente secondare nelle vie dei calcoli armonici il filo aureo della melodia ad altri appoggiata. Pensarono ch’era di massima importanza l’essere in arte periti, perchè il bello musicale traendo vita e vigore dalla novità, bisognava sapere all’improvviso variare i passi d’arbitrio che il compositore affida all’abilità ed al gusto del cantante; nella quale particolarità tante meraviglie ci vennero udite dalle labbra di coloro che, fastiditi della moderna macchinale uniformità, ricordano le gare prodigiose del gran Marchesi col vecchio David, e con molta verità e giustizia vengono sclamando: quelli sì ch’eran cantanti! Pensarono che non solamente un artista debbe essere valente nel magistero della voce, ma deve egualmente esserlo nell’arte drammatica, perchè non solo egli canta, ma agisce; e perchè un gesto improprio scema grandemente ii buon effetto della bella espressione musicale. Perciò non era coltura della mente che possibilmente non attendessero a procacciarsi, dovendo l’uomo drammatico essere formato ad ogni più nobile sentimento, e dovendo con eguale naturalezza così simulare gli atti forbiti del cortigiano, come i rozzi ed ingenui modi dell’abitatore dei campi. In simil guisa molte altre cose pensarono coloro che ne’ tempi andati fondarono un patrimonio di musicale rinomanza alla presente melomaniaca generazione.
Ma ben altrimenti si pensa oggidì. Il secolo che ha fatto disegnatore il sole, e piloto e condottiero il vapore, trovò che anche le arti potevan comminare su veicoli di fuoco; e giudicò ch’era uno sprecare gli anni e la fatica il condannarsi a tanti studj preparatorj, di che le genti illuminate della felice età nostra poteano far di meno; e dalla camera del solfeggio passare alla grand’aula del teatro, anzicchè un tratto di ceca temerità, parve non altro che una prova di ammirevole coraggio. Se i veri artisti d’un tempo tremavano all’idea di presentarsi ad un pubblico che ha sol una bocca per lodare e cento per biasimare, epperciò s’iniziavano per gradi a sostenerne il terribile aspetto ed a correre la difficil carriera melodrammatica, ora s’è sbandita ogni pusillanimità; il primo passo che si muove è quello che deve portare alla più ardua meta dell’arte. Il pubblico ha cangiato natura; e le cento bocche che prima erano aperte al biasimo ora sono spalancate alla lode. Prodursi in una parte che fosse minore di quella di una Norma, di una Semiramide, di una Beatrice, o da meno di quella di un Pirata, di un Percy, d’un Assur, d’un Torquato, sarebbe un traviare dal sentiero sublime a cui la natura li aveva fin dal nascere destinati. Sono storie da romanzo, novelle in versi quelle che si van raccontando di alcuni de’ più celebri cantanti, che per potere con miglior animo fissare in volto quel tremendo demone del pubblico, raffrontavano per la prima volta confusi nella turba plebea dei coristi. Ora non v’è più un’anima che vi creda. I grand’ingegni debbono mostrarsi grandi fin dai primi tratti: Achille uccideva i serpenti nella culla: i nostri campioni sono tanti Achilli. Non v’è dunque cimento difficile a che la loro gagliardia non basti: si sa che la fortuna latta colle sue mammelle gli audaci e dà alle nudrici mercenarie i figli modesti e virtuosi. Si è mai udito che la verecondia abbia trovato fortuna su questa terra, ove tanto si cercano le sostanze perchè tutto è coperto di fallaci apparenze?
Così l’esempio d’un primo che ragionò in tal guisa fu la pietra dello scandalo pei molti che trovavano assai comodo d’immitarlo; e la scena melodrammatica fu popolata di gente la quale manca perfino della facoltà di comprendere quali cose si oossono richiedere dall’abilità d’un artista. I neofiti della più ricca tra le arti gittansi sul teatro ad uno ad uno prima d’aver imparato a decifrare le note, prima di saper apprendere una parte da sè, ignorando che sia declamazione, che sia mimica, non intendendo (e questo è pur troppo una verità) il significalo delle parole che proferiscono.
Quali prove si possano sperare da simili campioni è facile immaginarlo. Usciti appena dalla tutela del maestro il quale a