ilici, mentre i suoni sommessi e lenti,
tramandati dall’orchestra fanno accorgere
il silenzio delle cose, quasi accennandovi
di non turbarlo. Mirabile potenza dell’arte,
<g. che rompendolo può esprimere il silenzio.
Le due pitture musicali che abbiamo
accennate sono ristrette a poche battute
come quelle che precedono appena poche
parole di recitativo con cui si descrivono
di mano in mano gli oggetti e i fenomeni
della C/eazione. A chi desideri altri esempi
di scene notturne accenneremo il Duetto
della Rosa bianca e rosa rossa «E deserto
il bosco intorno» del celebre Simon Mayr,
il principio del finale pi-imo nella Straniera
di Bellini, il primo tempo del quintetto
Elisa e Claudio di Mercadante, ecc.
Non ci dipartiremo dalla Cr eazione senza
far osservare la bellezza del primo numero
che succede alla creazione della luce colle
parole «Al brillar degli almi rai» e a
ben analizzarlo vorremmo che se ne considerasse
la musica per sé sola senza la
dichiarazione della parola. Questo è il
primo luogo dell’Oratorio in cui si dichiara
una melodia, un ordine di modulazione e
di ritmo, e il tono maggiore, il ritmo
quieto, la melodia scorrente per lo più su
intervalli diatonici destano l’idea d’ordine,
conseguenza dell’elemento testé creato. Ma
ciò non dura, e alla oo.a battuta una transizione
minore seguita indi a poco da un
giro di scala cromatica annunzia un turbamento: sembra la minaccia di una tempesta
che venga a intorbidar quella pace.
Una cadenza armonica lungamente protratta
accresce il timore massimamente col carattere
di quell’inganno ripetuto e rinforzato
da stromenti che lo rendono vie più spaventevole.
E il presagio si avvera, la cadenza
si risolve in un coro di grida disperate
e sotto a queste un arrotolarsi d’orchestra
per accordi di settime diminuite
che fa più certa la disperazione di quelle
voci, le quali tessute essendo in imitazioni
dirette ed avvalorate dalla modulazione
incalzante, e dall’agitato ritmo sembrano
voler dire già travolto l’ordine testé stabilito
negli elementi. Cielo, qual rabbia è
questa mai!
Ma già scema l’agitazione, l’orizzonte
si rischiara, una nuova cadenza riconduce
il tono maggiore e con esso una quiete di
ritmo, una giocondità di melodia clic rassomiglia
al ritorno del sereno dopo la
tempesta.
Scopriamo ora le parole e vediamo ciò
che ne descrivono.
Senza qui tutte ripeterle, che lungo
sarebbe, basti accennare che dopo la prima
terzina si descrive la caduta degli Àngioli
ribelli dal Cielo, e quindi purgato l’aere
si descrive la bellezza del ritornato ordine
delle cose. E qui si scorge siccome il maestro
abbia non solo espressa ma ampliata
rclt
di molto l’idea del poeta dipingendo in
quell’imitazione «Lo spavento, l’alfanno,
lo sdegno «il cadere precipitevole dei fulminati
spiriti l’un sull’altro arrovesciati,
urlanti:, e rendendo sensibile la bellezza
dell’ordine ritornato. Se non è questo un
tratto caratteristico del genio non sapremmo
ove rinvenirne un migliore.
XXXIII. Appartengono all’imitazione
obbiettiva i canti caratteristici nazionali, i
quali, quando noti, servono alla musica
quasi di scena, trasportando il pensiero a
quei luoghi, a quei costumi di cui ritraggono
il carattere.
A ciò si aggiunga che tali canti nella loro
|H semplicità esprimono sempre qualche affetto
che l’artista può rendere più sensibile
e mettere a protitto, solo cli’ei voglia
attentamente studiarlo. Così adoperò Rossini
nel Guglielmo Teli, nel quale introdusse
molti di quei canti svizzeri detti
Rans des vaches, e non pochi ne fece di
simile carattere frammischiandovi ove erano
opportuni i canti nazionali austriaci ed
ungheresi.
Con tale artifizio fin dalla sinfonia l’uditore
trovasi trasportato in quéi monti,
in quelle valli ove da un momento all’altro
l’eco ripete o i suoni della cornamusa e
del flauto pastoreccio, o prolunga il muggito
de’ tuoni. Nel primo tempo la musica
vi trasporta in una solitudine in cui sembra
regnare un misterioso silenzio. Quindi
un uragano quasi vi sorprende e questo
cessato udite un pastore che già colla piva
intuona la patria canzone, e quindi un flauto
che lo direste accordarsi a quello solo per
caso, ma esserne adatto disgiunlo tanto le
due melodie appariscono l’una dall’altra indipendenti.
A compiere questo bellissimo
esordio dell’Opera subentra un’allegra marcia
austriaca quasi arrivo di numerosa
armata. Ecco una sinfonia veramente caratteristica
che con due parole, Svizzera ed
Austria, pastori e militi fa correre il pensiero
a indovinare la natura dei luoghi e
degli avvenimenti che stanno per essere
rappresentati sulla scena.
Ma questo genere d’imitazione perde il
suo effetto se i canti nazionali che prende
a riprodurre non sono noti. Farebbe pertanto
cosa utilissima chi imprendesse una
raccolta di tali canti, e a quel modo che
dotti viaggiatori ne fecero conoscere le particolari
produzioni naturali di questo e
quel paese, pubblicasse questa parte del
costume dei popoli, adornandola quanto
basti a favorirne la diffusione. Tale raccolta
arricchita della propria poesia abilmente
tradotta sarebbe doppiamente utile, poiché
porgerebbe mezzo all’artista di cogliere la
natura quasi sul fatto di esalare in suoni i
più intimi sentimenti, da cui forse siamo
noi già troppo lontani, come quelli che
assoggettato avendo la musica al calcolo
abbiani forse accordato troppa stima e importanza
a ciò, che più spesso parla dell’artista
anziché dell’affetto. (d)
R. Boucheron.
(t) Nell’articolo Carattere dei trioni dato nel N. 2-i,
alla riga 35 della pagina 109 leggi la bémolle maggiore
e non come per errore tipografico fu stampata fa bemolle
maggiore.
CRITICA TEATRALE.
BREVI PAROLE
Iu proposito ali 1111 lungo silenzio, eec.
Non ci recherebbe menomamente sorpresa,
che a taluno de’ nostri lontani lettori
sembrasse, o che da gran tempo i teatri
drammatici milanesi se ne stiano oziosi,
o che la Gazzetta Musicale abbia voluto
emanciparsi dal parlar degli spettacoli lirici
della giornata. Se non chela Gazzetta ha da
qualche mese a questa parte le sue buone
ragioni per tacersi su tutto o quasi tutto
che nella primavera scorsa hanno offerto le
nostre scene liriche, delle quali non meno
di tre eran aperte al culto di Euterpe.
D’altronde ci siam già spiegati abbastanza
a tempo debito non esser costume nostro
di tener conto di riproduzioni di vecchi
spartiti, quando qualche particolare circostanza
di rilievo non ne’spinga a fare un’eccezione.
Ma ci è giuoco forza affermare che
nè la Celeste degli Spadari. nè il Barbiere,
nè il Gonzak’o alla Scala, nè il Giuramento.
nè il Roberto, ecc.. al Carcano. nò
il Chi dura vince, o la Beatrice al Re,
nulla offrivano di tale rilievo da richiedere
dettagliati articoli, abbencliè qui e colà noi
•pure non isdegnassimo dividere alcuni degli
applausi, che il nostro gentil pubblico
profondeva, più che spesso non abbisognasse,
ai fortunati esecutori.
Bensì piuttosto, con intima convinzione
e con buona dose di ammirazione, avremmo
voluto tener discorso di madama Albert,
che intermezzava i Vaudevilles francesi, con
delle Canzoni o Ariette ch’ella cantava forse
come nessun’altra saprebbe cantare-, ariette
che oltre allò straordinario pregio dell’esecuzione,
vogliono essere in generale distinte anche
per impronta caratteristica ed eleganza
di composizione (*). Ma anche il talento di
un’artista drammatica, che non trattava la
musica che per sola incidenza, o come dicesi,
per un di più, poteva ben poco interessare
i serj cultori dell’arte musicale.
Però un tortoche ne si appone, e del quale
potremmo esser creduti colpevoli davvero, si
è che e la Scala e il Re ci regalarono, senza
che noi ne facessimo menzione, di tre spartiti
nuovissimi per Milano: vale a dire al maggior
teatro Ea Testa di Bronzo di Mercadante
e la Clemenza di Valois di Gahussi:, al
Re il Columella di ritorno dagli studj di
Padova di un Fioravanti che ne si dice
figlio del celebre autore delle Cantatrici
Villane. Ma noi ci scolpiamo del nostro
silenzio coll’osservare che la prima di queste
tre Opere nuove per Milano a malapena
si sostenne per troppo palese abuso di
forme antiquate, senza che mai rivelasse
a compenso qualche lampo di genio, qualche
tratto di vera invenzione; la seconda
fu giudicata a buon dritto un debole parto
di non originale fantasia, e si trovò quindi
al tutto mancante di vigoroso concetto e
di forti tinte, quali a tragico dramma convengousi,
mancanza che rendevasi viemaggiormente
palese nei troppo vasti spazii
della Scala. Però in parte almeno stanno
a scusa dei due summentovati spartiti, e
le solite riduzioni, e i soliti tagli e i cangiamenti
di tuono, e le parti per nulla adatte
agli esecutori e le solite manomissioni, alle
quali già da lungo tempo abbiamo dovuto
0 d amore o di forza avvezzarci. A tutto
ciò si aggiunga la poca importanza, anzi
1 assoluta noncuranza colla quale il pubblico
del nostro gran teatro riguarda solitamente
(e nel corrente anno forse più che
per lo innanzi) gli spettacoli musicali. Intanto
ecco quel che succede: per potere o
d un modo o dell altro farsi udire da una platea
che a tutt altro si interessa fuorché alla
musica, i poveri artisti son costretti a gridare
invece di cantare, persuasi di rendere
omaggio con questa singolare sostituzione
al noto proverbio «chi ha più voce ha più
ragione «.La giovine signora Abbadia, dotata
di ottimi elementi per una splendida
riuscita, si addimostrava in singoiar modo
persuasa di questo fatto, allorché dimenticando
al tutto i migliori precetti della buona
scuola, sforzavasi a meritar gli applausi di
coloro i quali misurano il valore de’ cantanti
in ragione della robustezza de’ polmoni
e della dilatabilità della gola. Però,
seguitando improvvidamente nell’infelice si(1)
L’editore Lucca pubblicò buon numero delle più
scelte di codeste Ariette; e noi raccomandiamo questa
pregevole Raccolta agli amatori della buona musica da ÌV
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