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Dopo un lungo e pesante discorso, espresso nel suo solito stile, egli prese da uno scaffale un certo numero di vecchi libri relativi al duello, e mi trattenne assai tempo leggendone dei brani e commentandoli; mi rammento appena i titoli di alcune di quelle opere. Vi era l’ordinanza di Filippo il bello sulla singolar tenzone; il Teatro dell’onore del Tavyn; un Trattato sul permesso del duello di Audigniers. Poi mi mostrò, con gran sussiego, le Memorie del duello di Brantôme, Colonia, 1668, un elzevir prezioso, unico, su carta velina, con grandi margini, rilegato dal Derôme.

In fine richiamò in modo particolare, con aria di scaltrezza, la mia attenzione sopra un «in-ottavo» grosso, scritto in latino barbaro da un certo Hedelin, un francese, portante questo titolo singolare: Duelli lex scripta et non, aliterque. Di quest’opera mi lesse un capitolo, il più insulso del mondo, circa le injuriae per applicationem, per constructionem et per se, di cui la metà, a suo dire, concerneva direttamente il suo caso «particolarmente raffinato», senza che io giungessi a comprender sillaba in tutto quel guazzabuglio.

Finito il capitolo, chiuse il libro e mi chiese che cosa pensassi dovesse fare. Gli risposi che io aveva intera fiducia in lui, e che quindi mi sarei attenuto senz’altro a quanto egli avesse proposto. La sua vanità fu soddisfatta, ed egli si sedette per scrivere una missiva al Barone.

Eccola: