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inesorabile che ostacolava i meravigliosi suoi tentativi, che inceppava le superbe sue aspirazioni, che impediva al suo genio il sollevarsi potentemente oltre le meschine volgarità che lo disturbavano, che irritavano la sua fibra nervosa, tesa alla perfettibilità dell’arte.

Egli deve aver percorsa tutta la gamma della sofferenza, dalla fame allo spleen, dalla miseria alla nostalgia, dal dolore più avviliente allo spasimo più squisito, più acuto.

Tutto deve aver provato; pure, in nessuna occasione, nè abbandonato, nè perseguitato, nè respinto, nè incompreso, egli fu abbietto.

Persin l’alcool non agì su lui se non per esagerare certi tratti della sua individualità, ma non ve ne aggiunse di nuovi, non lo depravò.

Di generoso, incostante, capriccioso che era, non diventò nè avido, nè triviale, nè egoista; solo più appassionato, più impressionabile.

Due qualità essenziali per essere infelice.

La nevrosi ereditaria, esasperata dal veleno, finì per distruggere quella povera esistenza, e le sue ultime ore, scrive l’Ortensi, sono oscure e misteriose come le ultime ore di Petöfi e di Shelley.

Pöe fu una vivente protesta.

In mezzo a quel mondo americano, venale allora come adesso, affamato di materialismo, Pöe sognatore, Pöe poeta, era evidentemente uno spostato.