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Ulalume, scrive il Withmann, rassomiglia a certi paesaggi di Turner: «al primo sguardo non presentano che tenebre, sembrano informi».

Il triste scenario del tempo e del luogo è abbozzato dal Poe, sin dal principio, con straordinaria potenza suggestiva.

Le ripetizioni che s’inseguono, che si succedono con pazza ostinazione, quasi confessione dell’impotenza di un maniaco sublime che non sa e non vuole e non può strapparsi dall’idea fissa che lo seduce, dànno subito al lettore un’impresione vaga d’angoscia, e poi, a poco a poco, nella solennità di quella notte di ottobre, nel mistero di quel paese druidico e spettrale di Wer, sulle rive tenebrose di quello sconosciuto padule d’Hobre, rinnovandosi, crescendo, moltiplicandosi come rintocchi funebri, sopraffanno l’anima e l’avvincono in un incubo, in un fascino a cui non le è più possibile sfuggire.

Il poeta, quasi trascinato da un ricordo, indolente si lascia vincere dalla propria parola e dal proprio pensiero e passa, come senza avvedersene, da una semplice descrizione, da impressione ad impressione, fino a svelare tutto l’intimo spasimo dell’anima sua.

Edgard Pöe compose Ulalume nella solitudine di Fordam, nel 1847. — Gli era morta la moglie pochi mesi prima.