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Pöe, poeta, è il cantore della morte; i suoi versi non vibrano che di quest’unica corda.

Egli non invoca il Nulla, la Quiete Suprema, come Leopardi o lo Shelley; non crede nel renaître ailleurs, come Vittor Hugo; non si compiace di scheletri e di terrore come il Burger, l’autore del Corvo, davanti alla tomba, subisce unicamente il fascino, la vertigine del dolore. Egli non piange, non prega, non impreca, non filosofeggia. Di fronte al rovinare della sua fede, del suo amore egli resta immoto, vinto dal destino, e mormora con monotona litania, ed annovera, ed analizza, con triste insistenza, i dolori suoi, le ferite che gli sanguinano nel cuore.

La sventura lo stupisce, la fatalità lo accascia. Egli è come il prigioniero del pozzo, nella sua celebre novella, che al parossismo della disperazione quasi sorride, seguendo, coll’occhio, l’oscillare, l’abbassarsi lento ed implacabile della lama d’acciaio che deve passargli sul petto.

Mai un barlume di speranza! nel completo abbandono di tutto egli ben sa che il passato non può più tornare, che la morte è per sempre, che la Desolazione sarà eterna.

E così in questa misteriosa e selvaggia Ulalume, la stella dell’alba, della gioia, dell’amore, non conduce fatalmente che ad un sepolcro, ed il raggio di Venere, che un istante aveva diradato la tenebra, non serve ad altro che a svelare il nome di una morta adorata, e ad evocare un passato irrimediabile.