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capitolo ventesimosecondo. 65

quei miseri spauracchi dell’Impero, ma terribili e che lo dovean divorare, secondo il detto del generale Canabarro.

Cadea la notte, quando io riuniva i superstiti compagni e marciavo alla coda della divisione in ritirata verso Rio Grande, per la stessa strada che percorremmo pochi mesi prima gonfio il cuore di speranze e preceduti dalla vittoria.


Capitolo XXII.

Vita militare per terra; vittoria e sconfitta.


Tra le peripezie non poche della mia vita procellosa, io non ho mancato d’avere bei momenti, e tale, abbenchè sembri avrebbe dovuto esser il contrario, era quello in cui alla testa di pochi uomini, avanzo di molte pugne, e che giustamente aveano meritato il titolo di valorosi, io marciava a cavallo con accanto la donna del mio cuore, degna dell’universale ammirazione, e lanciandomi in una carriera che più ancora di quella del mare aveva per me attrattive immense. E che m’importava il non aver altre vesti che quelle che mi coprivano il corpo, e di servire una povera Repubblica che a nessuno poteva dare un soldo?

Io avevo una sciabola ed una carabina, che portavo attraversata sul davanti della sella. La mia Anita era il mio tesoro, non men fervida di me per la sacrosanta causa dei popoli e per una vita avventurosa. Essa si era figurate le battaglie come un trastullo, e i disagi della vita del campo come un passatempo; quindi, comunque andasse, l’avvenire ci sorrideva fortunato, e più selvaggi si presentavano gli spaziosi americani deserti, più dilettevoli e più belli ci pareano. Poi sembravami d’aver fatto il mio dovere nelle diverse e pericolose fazioni di guerra in cui m’ero trovato e d’aver meritato la stima dei bellicosi figli del Continente (Rio Grande).