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capitolo ventesimo. | 61 |
Fui quindi obbligato di adempiere al comando, ed anche sotto un governo repubblicano è ben repugnante il dover ciecamente ubbidire.
La guarnigione e gli abitanti avevano fatto dei preparativi di difesa verso il lago. Io sbarcai a tre miglia di distanza a levante, e li assaltai improvvisamente dalla montagna, cioè alle spalle. Sconfitta ed in fuga la guarnigione, fummo padroni di Imiriù.
Io desidero per me, ed a chiunque non abbia dimenticato d’esser uomo, di non esser obbligato a dar sacco. Credo che, per quanto vi sieno delle prolisse relazioni di tali misfatti, impossibile sia narrarne minutamente tutte le sozzure e nefandità. Io non ho avuto mai una giornata di tanto rammarico e di tanta nausea dell’umana famiglia! Il mio fastidio e la fatica sofferta, in quel giorno nefasto, per raffrenare almeno le violenze contro le persone, furono immensi, e vi pervenni, credo, a forza di sciabolate, e non curando la mia vita; ma circa alla roba d’ogni specie non mi fu possibile evitare un disordine terribile. Non valse l’autorità del comando, nè i ferimenti usati da me e da pochi ufficiali non domi dalla sfrenata cupidigia. Non valse la voce espressamente sparsa, che il nemico tornava alla pugna più numeroso di prima, e sorpresi così sbandati ed ebbri ne avrebbe fatto un macello, se fosse veramente comparso.
Nè tutto ciò era falso, poichè i nemici vedevansi sulle alture, ma non ardirono attaccarci. Nulla valeva a trattenere gl’insolenti saccheggiatori; e disgraziatamente quel paese, benchè piccolo, era riccamente provvisto d’ogni genere, massime di bevande spiritose, essendo esso un deposito che provvedeva parte considerevole degli abitatori dei monti. Di modo che l’ubriachezza fu generale.
Si noti che io non conoscevo la gente meco sbarcata, per la maggior parte di nuova leva ed indisciplinatissima. Certo se si presentavano cinquanta nemici in tale circostanza ad attaccarci, noi eravamo perduti.
Infine con minaccio, percosse ed uccisioni si per-