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capitolo decimosesto. 51

slanciai verso il mio caro, per porgergli un legno che aveva servito a salvarmi. Già ero giunto vicino a lui, e confortato dalla grandezza del proposito io avrei salvato quel mio fratello! E che fortuna sarebbe stata per me! Troppo grande! Un maroso ambi ci sommerse! Un momento dopo io galleggiai. chiamai, non vedendolo ricomparire, e chiamai disperatamente, ma invano! il mio amico d’infanzia era rimasto travolto nei gorghi di quell’Oceano, che non avea temuto di varcare per raggiungermi e per servir la causa d’un popolo. Un altro martire della libertà italiana privo d’un sasso che segni ove furon sepolte le sue ossa nelle arene del nuovo mondo!

I cadaveri di sedici compagni ebbero la stessa sorte; ingoiati dal mare essi furono trasportati dalle correnti a trenta miglia di distanza verso il settentrione, e là sepolti nelle sabbie della costa. Tra i sedici trovavansi sei Italiani; io settimo solo mi era salvato. Luigi Carniglia, Edoardo Matru, Luigi Staderini, Giovanni D. ed altri due che non rammento, tutti forti e prodi giovani.

I superstiti, in numero di quattordici, l’uno dopo l’altro tutti avevano approdato. Invano tra loro cercai un volto italiano: morti tutti! Mi sembravo solo nel mondo! Io vaneggiavo e quasi mi parea pesante quell’esistenza salvata con tanta fatica. Molti dei compagni, non marini, non nuotatori, si salvarono. Commenti chi vuole! Tra i perduti io contavo altri compagni ben cari; due liberti, un mulatto e un nero perfetto, Raffael e Procopio, gente d’un valore e d’una fedeltà a tutta prova.

Con noi approdava alla costa un barile d’acquavite; mi sembrò una fortuna e dissi a Manuel Eodriguez, ufficiale catalano: «Procuriamo di aprirlo e rinvigorirci coi compagni che vengono approdando.» Si mise mano all’opera di sturare il barile, ma nel tempo in cui faticavamo per ottenere l’intento ci colpì un freddo tale, che fu fortuna il ricordarsi di prendere a correre; senza ciò fare certo saremmo caduti esausti dalla stanchezza