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438 quarto periodo.

patriotti, che furibondi si precipitarono contro l’uscio ardente come energumeni.

Altro che stanchi, spossati e affamati! Non avevo forse già visto operar miracoli a cotesta gioventù italiana! Diffidarne era un delitto, roba da vecchio decrepito!

Non valsero ad arrestarli nè il carro attraversato, nè i rottami ardenti ammonticchiati sulla soglia, né la grandine di fucilate che pioveva da tutte le direzioni. Essi mi facevan l’effetto d’un torrente, che rotti gli argini ed i ripari si precipita nella campagna.

In pochi minuti la città fu inondata dai nostri e tutta la guarnigione rinchiusa nel castello. Alle sei pomeridiane si cominciò l’attacco del castello, essendo i nostri già padroni di tutti gli sbocchi delle strade che conducevano a quello; avendoli barricati tutti, si mise il fuoco alle scuderie con fascine, paglie, carri, e quanti oggetti combustibili vi si trovavano.

Alle dieci antimeridiane si respinsero con poche fucilate circa duemila uomini, che da Roma avanzavano al soccorso degli assediati. Alle undici la guarnigione affumicata e temente di saltare in aria col fuoco alle polveri, che tenevan di sotto, alzò bandiera bianca e si arrese a discrezione.

Il prode maggiore Testori, poco prima della resa dei nemici, aveva preso la determinazione di mettersi allo scoperto alzando una bandiera bianca per intimar loro di arrendersi, ma quei mercenari violando ogni diritto di guerra lo fucilarono con vari colpi, e lo lasciarono cadavere. Ebbi un’immensa fatica, dopo tanti e siffatti atti di barbarie per parte di cotesti sgherri dell’inquisizione, a salvar loro la vita, essendo i nostri irritatissimi contro di loro.

Io stesso fui obbligato di condurli fuori di Monterotondo, e farli scortare al Passo di Corese da quaranta uomini agli ordini del maggiore Marrani.

Successe in Monterotondo ciò che succede in una città presa d’assalto, e che poca simpatia s’era meri-