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capitolo terzo. 11

delle sètte. La capitale d’un mondo, dalle sue ruine sublimi, immense, ove si ritrovano affastellate le reliquie di ciò ch’ebbe di più grande il passato, capitale d’una setta, un dì seguace del Giusto liberatore di servi, istitutore dell’uguaglianza umana da lui nobilitata, benedetto da infinite generazioni con sacerdoti apostoli del diritto de’ popoli, oggi degenerati tanto, vero flagello dell’Italia che vendettero allo straniero settanta e sette volte?

No! La Roma ch’io scorgeva nel mio giovanile intendimento, era la Roma dell’avvenire,1 Roma di cui giammai ho disperato: naufrago, moribondo, relegato nel fondo delle foreste americane! La Roma dell’idea rigeneratrice d’un gran popolo! idea dominatrice di quanto potevano ispirarmi il presente ed il passato, siccome dell’intiera mia vita.

Oh! Roma mi diventava allora cara sopra tutte le esistenze mondane. Ed io l’adoravo con tutto il fervore dell’anima mia. Non solo ne’ superbi propugnacoli della sua grandezza di tanti secoli, ma nelle minime sue macerie, e racchiudevo nel mio cuore, preziosissimo deposito, il mio amore per Roma, e non lo svelavo senonchè allor quando io potevo esaltare ardentemente l’oggetto del mio culto.

Anziché scemarsi il mio amore per Roma, s’ingagliardì colla lontananza e coli’ esigilo. Sovente, e ben sovente, io mi beava nel!’ idea di rivederla una volta ancora. Infine Roma per me è l’Italia, e non vedo Italia possibile, senonchè nell’unione compatta, o federata, delle sparse sue membra. Roma è il simbolo dell’Italia una, sotto qualunque forma voi la vogliate. E l’opera più infernale del papato era quella di tenerla divisa moralmente e materialmente.2


  1. Scrivevo nel 1849.
  2. Tali furono sempre le mie idee, scritte nel 1849 e copiate oggi nel 1871.