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capitolo xv 69


qualche volta d’esser solleticato a far una buona azione — tale prurito fosse venuto ad alcuno dei generosi palermitani presenti — esso potevasi precipitare in quella carrozza di cattivo augurio, strapparne fuori il malvagio, e schiacciarlo col tacco del suo stivale per non contaminarsi le mani, come si fa del velenoso rettile. — Egli avrebbe compito opera santa e liberato l’Italia da uno de’ suoi più perversi e nocivi nemici.

E lì, nelle vicinanze del sinistro augello, si aggirava uno: giovane, bello, forte, tipo di quella gioventù palermitana sì propensa all’eroismo del martirio. — Cozzo, il valoroso amante di Lia con altri compagni della stessa tempra da lui guidati, avean giurato di liberar i patriotti prigionieri nel forte di Castellamare. Ed eran molti i detenuti — appartenenti per la maggior parte al fiore dei propugnatori della Libertà Italiana.

Essi passeggiavan divisi e lontani dall’ergastolo borbonico — per coprire il loro disegno — e Cozzo, or sapendo che la prigione racchiudeva il suo tesoro, la sua Lia era d’un’impazienza indescrivibile di cominciar a menar le mani. — Poi si sapeva delle due bellissime forestiere compagne della palermitana la di cui fama s’era duplicata sotto il velo del mistero. — Solo sapevasi ch’esse provenivano dai Mille.

E Cozzo coi compagni che avrebbero potuto liberar il mondo da un demonio tentatore, non se ne occuparono credendo vuoto il veicolo — e penetrati com’erano dalla santità della loro impresa.