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contessa per moderare gl’impeti dell’adorata sua compagna.

Marzia, più docile di Lina, dava pochi motivi a rimostranze. Comunque, come al corsiero generoso, l’aria pura e libera della campagna l’avea ravvivata, l’aveva resa a se stessa, le aveva ridato quel brio che l’animava a Calatafimi, contro i soldati del Borbone.

Ma che serve! — l’anima sua era contristata da affanni da essa sola conosciuti, e che si dipingevano mestamente sul bellissimo volto quando era padroneggiata da codeste tediose reminiscenze.

Essa sorrideva alle dolci parole di Virginia e dei suoi amici, ma quel sorriso sfiorava appena le labbra coralline, per far subito posto a mesto, abituale atteggiamento, massime quando il suo sguardo cadeva sullo sventurato genitore, che macchinalmente, e quasi istupidito dai tormenti sofferti, accompagnava silenzioso la comitiva.

Un giorno, sulla strada da Tivoli a Subiaco, mentre la brigata aveva fatto un alto, Lina, avendo scoperto, vicino al sito un bell’albero di fichi, disse a Marzia: «Io monterò su quest’albero a mangiare dei fichi, e te ne getterò la tua parte». Marzia, che non voleva esser da meno in agilità della compagna, rispose: «ma monterò anch’io, e ne mangeremo assieme sull’albero» — «Che sì! che no!» nacque un po’ di diverbio tra le due amiche. Lina, sollecitamente però, lasciò la compagna ed arrampicossi sul fico. Usando troppa precipitazione, nel salire, mise un piede in fallo, si