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capitolo xlvi | 263 |
terribile setta della camorra non ammetteva indugi. Potevasi, per esempio, giungere al banco della bella Giovanna, essendo profani, bevervi o mangiare qualche cosa seduti sulle panche e tavole esterne di cui già narrammo, ma per penetrare nella catacomba camorrista, nelle ore delle conferenze, dovevasi essere iniziati, o morire. E molte atrocità eransi commesse verso imprudenti che, contro il divieto delle sentinelle, volevano internarsi.
Conchiudiamo dunque: che camorristi erano i due fratelli di Giovanna e camorrista essa stessa (per poter vivere), dicevano, ma in sostanza trascinati in quella cloaca, dalla fatalità dei tempi, e massime, da pessimi governi, che sembrano scaturire apposta dall’inferno per la sventura d’una delle più belle regioni del mondo.
«Una volta eravamo tredici come gli apostoli» esclamò Tifone agli undici compagni, «e noi siamo stati ingannati da Cristo divenuto Giuda, poiché Talarico, il traditore, facea le funzioni di redentore tra di noi. Ed ora quel miserabile si è dato anima e corpo a questi eretici rompicolli. «Non te n’incaricare» rispondeva Agnello al capitano della camorra «un traditore, è meglio per noi si sia allontanato — la causa del re nostro e della Religione trionferà senza Talarico. «Manaccia!» ripigliava il focoso calabrese «avrei voluto almeno che quell’uomo non fosse della terra mia. — Eppure era valoroso come un demonio quel figlio d’Aspromonte. E non sono fa-