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capitolo xlii | 235 |
Un incidente, però, fermò un momento la coda della Colonna romana. Mentre la mezza centuria d’Orazio dopo d’aver lasciato sfilare la forza, ponevasi in moto di retroguardia, un grido uscito dal Tevere: «Aiuto! Aiuto!» colpì l’orecchio dei nostri giovani, e temendo fosse uno dei loro, fermaronsi, fecero corda con alcuni cappotti, e ne porsero l’estremità al naufrago.
Tiratolo su in salvo, conobbero i Romani alla favella, esser il salvato uno straniero, ed al chiaro d’un zolfanello, scoprirono vestir egli l’assisa del mercenario.
«Accidenti!» esclamò Orazio «potevate ben lasciarlo affogare quel mostro di pesce-cane — Ora però, egli deve marciare con noi, perchè naturalmente svelerebbe la direzione nostra». — E Merode, era egli stesso, fu consegnato a due militi per presentarlo a Muzio, che lo accoppiò a M. le marquis de Pantantrac, anche questo condotto fuori come ostaggio, in caso che i preti avessero voluto, secondo il loro costume, sacrificar qualche innocente alla lor rabbia, per il felice avvenimento.
I due cattivi fecero di necessità virtù, e contentissimi di non perder la pelle, si posero alacremente in marcia, custoditi da una guardia. Pantantrac, senza parlare, ma Merode, fradicio, col fresco d’una notte di settembre, si faceva sentire, di quando in quando con alcuni «sacré nom de Dieu!» e con non poche battiture di denti. Povero Merode! ravvolgendo le memorie