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La vicinanza del Tevere lo facea quasi inespugnabile da quella parte, e dalle altre parti v’erano altissime mura, guernite di torri ad uso castello del Medio Evo, in cui le monache tenevano una sentinella in ogni direzione, fornite da una compagnia di guardia, composta di mercenari stranieri, stanziati nel perittero del convento1.

Da via Giulia e sponda sinistra del Tevere i romani avviavansi a poco a poco, passando i ponti Gianicolense e Fabrizio, sulla sponda destra per la Lungara, la Lungaretta, via S. Francesco, sino a tutta Ripagrande, e per la una, ora destinata all’assalto, essi tutti stavano al loro posto, divisi, ma pronti a concentrarsi al primo segnale.

I preti, da quegli astuti e birbanti che sono, avean preso ogni precauzione, per prevenire la fuga od il ratto della bella prigioniera, ed oltre a una guardia di birri nei giardini immensi dei padri francescani, a cui aveva appartenuto il convento prima2, una compagnia intiera stanziava nel perittero dell’edificio, una di soccorso sulla piazza del teatro di Marcello, ed un battaglione in riserva al Campidoglio: queste ultime

  1. Nella mia ritirata da Roma nel 49, dovendo alloggiate la gente nei conventi, come siti più forti e convenevoli, i frati tenevano delle sentinelle sui campanili e nascondevano ogni cosa quando ci scorgevano.
  2. Nel 1825, stando io a Ripagrande a bordo d’un bastimento di mio padre, veniva a visitarci un padre francescano di Nizza, abitante del convento suddetto. Io non ricordo il nome del frate, ma dai concittadini nizzardi si sapeva benissimo, esser stato lo stesso, quando era laico, una cima di dissoluto e di birbante.